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Figlio mio, lo smartphone può attendere

Nati nel 2019 in Friuli Venezia Giulia, i Patti Digitali di Comunità sono diventati ormai 42 lungo tutta la penisola. Simone Lanza (Bicocca): «Non si tratta di vietare il cellulare, ma di usarlo consapevolmente. Ci vuole una comunità, per uscire dalla contrattazione sindacale tra genitori e figli»

di Sara De Carli

Il grido di battaglia «al bando gli smartphone!» periodicamente torna alla ribalta. Gli ultimi titoli vengono – nelle stesse ore – dalla Gran Bretagna, che ha deciso di vietarli nelle scuole, da San Marino, che va verso il divieto fino agli 11 anni e dalla Sicilia, dove il deputato M5S Carlo Gilistro, pediatra, ha presentato una proposta di legge per vietarli sotto i 3 anni e limitarne l’uso fino ai 12, con tanto di ammende per i genitori trasgressori.

Per genitori e educatori la questione è pane quotidiano. La scelta sull’età in cui dotare il figlio di un cellulare è ormai oggetto di contrattazioni degne delle più dure vertenze sindacali, per poi passare al quanto tempo e con quali limitazioni. E se arrendersi al “ce l’hanno tutti, mio figlio resterebbe l’unico senza” (alias sindrome della deprivazione relativa) va per la maggiore, ecco che in Italia sta crescendo il movimento dei genitori che si mettono insieme per aspettare, sottoscrivendo un Patto Digitale di Comunità.

Sono 42 i patti digitali già avviati, con circa 4mila genitori che li hanno sottoscritti e 15 quelli in avvio: 14 le regioni coinvolte, da Gemona del Friuli ad Agrigento. «Non si tratta di vietare il cellulare, ma di maturarne un uso consapevole: è davvero necessario che in prima media i ragazzini abbiano lo smartphone, se poi la legge dice che fino a 14 anni i social network sono vietati? I genitori che sottoscrivono i patti si fanno queste domande. Non sono contrari alle tecnologie, ma vogliono usarle con gradualità… Se l’esigenza è solo quella di telefonare o mettere i ragazzi nelle condizioni di contattare i genitori per un’emergenza, ci sono un’infinità di altre possibilità, senza bisogno di mettergli in mano uno smartphone con cui possono accedere a contenuti di qualsiasi tipo», spiega Simone Lanza.

Lanza è un maestro di scuola primaria, ha la specializzazione sul sostegno ed è attualmente distaccato al Centro di ricerca “Benessere Digitale” dell’Università Milano-Bicocca: fa parte del board nazionale dei Patti Digitali di Comunità e aderisce lui stesso, come genitore di una bambina di 10 anni, al Patto di Milano. La rete infatti è promossa dal Centro di ricerca “Benessere Digitale” della Bicocca e tre associazioni attive nel campo dell’educazione consapevole all’uso dei media: Mec, Aiart Milano e Sloworking

Che dire della scelta della Gran Bretagna di vietare gli smartphone a scuola?

Anche in Italia gli smartphone a scuola sono formalmente vietati, ma quando tutte le risorse stanziate per la scuola sono per la tecnologia e la formazione dei docenti sull’uso della tecnologia, senza porsi la domanda sul “a cosa serve?”, siamo di fronte a una schizofrenia fortissima. Una volta che tutte le scuole avranno il casco per la realtà virtuale, gli alunni saranno più competenti o semplicemente si divertiranno di più nel processo di apprendimento? La questione è complessa e ogni semplificazione è fuorviante: chi ha promosso la digitalizzazione dell’infanzia? Con che consapevolezza? Se partiamo dai dati della digitalizzazione dell’infanzia nella sua dimensione internazionale abbiamo una differenziazione molto più forte di quel che si pensa: il 25% dei bambini tra 0 e 8 anni negli Usa guardano uno schermo per più di 4 ore al giorno di schermo, ma c’è un 23% che non guarda neanche un minuto. Se entriamo dentro questo screen time, cosa vediamo? Il 75% del tempo i bambini lo passano a fruire contenuti molto superficiali o cartoni animati che non hanno più nemmeno un inizio e una fine, ma che sono un flusso continuo in cui non hanno più alcuna importanza né i dialoghi (che infatti sono incomprensibili) né il che cosa stia succedendo … In Spagna parlano di contenuti denarrativizzanti. Questo per dire che non è vero che stare davanti allo schermo sostenga di per sé il processo di apprendimento: eppure negli Usa, nelle classi povere, gli adulti pensano questo. 

I dati relativi alla digitalizzazione dell’infanzia presentano una differenziazione molto più forte di quel che si pensa: il 25% dei bambini tra 0 e 8 anni negli Usa guardano uno schermo per più di 4 ore al giorno di schermo, ma c’è un 23% che non guarda neanche un minuto

Simone Lanza, del board nazionale dei Patti Digitali di Comunità

Come sono nati i Patti Digitali di Comunità? 

I patti digitali di comunità sono nati nel 2019 in Friuli Venezia Giulia, promossi dall’associazione Media Educazione Comunità-Mec che ha avuto l’idea e che ha creato il primo patto. Poi ne vennero altri in Friuli Venezia Giulia e uno a Vimercate. A quel punto è nato un coordinamento nazionale e a ottobre 2023 in Bicocca si è svolto il primo convegno nazionale, con 300 partecipanti: è stato un punto di svolta, ci sono piombate addosso tantissime richieste, si tratta di una domanda molto sentita dai genitori e dai docenti. Il Manifesto dell’educazione digitale di comunità si articola in 5 principi: sì alla tecnologia, ma nei tempi giusti; preparare l’autonomia digitale; regole chiare e dialogo; adulti informati e responsabili; serve una comunità. La formazione dei genitori è cruciale, perché fare il patto è prendersi la responsabilità di formarsi e formare i ragazzi non al non uso dello smartphone ma a un uso consapevole dei device. 

A Vimercate per esempio, tra le famiglie che hanno aderito al patto, l’85% dei ragazzi non ha vissuto l’assenza di cellulare come una deprivazione

Perché ci vuole una comunità? 

Occorre sentirsi partecipi di un progetto più grande, che i ragazzi sentano che la scelta di rinviare l’arrivo del cellulare è qualcosa in cui credono anche altre persone e che ha motivi ragionevoli, che si possono spiegare. L’adolescente ne è rincuorato, sa che non è una scelta inutile, capisce che non è un divieto ma un privilegiare altre situazioni. Nei gruppi i genitori spesso riescono a dare da soli delle risposte, si crea uno spazio comunitario di condivisione dei problemi e delle soluzioni. Le famiglie si attivano e si sentono responsabili. Anche la sindrome di deprivazione relativa diminuisce: a Vimercate per esempio, tra le famiglie che hanno aderito al patto, l’85% dei ragazzi non ha vissuto l’assenza di cellulare come una deprivazione. La comunità poi, soprattutto nei centri più piccoli, significa coinvolgere associazioni per momenti conviviali, aperitivi, iniziative come le gite o i campi senza smartphone. L’altro aspetto è quello della creazione di “mappe di quartiere”, con i luoghi in cui un ragazzino può accedere in modo sicuro a una modalità per comunicare con i genitori, se ne avesse bisogno, anche senza possedere un suo smartphone. All’ultimo incontro per esempio una mamma ha portato la sua ansia per il fatto che il figlio fosse uscito senza le chiavi di casa e non avendo il cellulare non c’era modo di avvisarlo. Ma il ragazzino all’uscita da scuola ha trovato comunque il modo per mettersi in contatto con la mamma: la preoccupazione alla fine era tutta e solo della mamma. 

Foto di Andrea Piacquadio, Pexels


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