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Fuga dai fossili benedetta dalla Chiesa (d’Inghilterra)

Si allunga l'elenco di chi pratica il disinvestimento dalle energie di origine fossile. Ora anche gli anglicani inglesi annunciano che non impiegheranno più le risorse istituzionali in una serie di grandi compagnie dell'oil & gas

di Andrea Di Turi

Continuano a crescere. Sono gli investitori istituzionali internazionali che "abbandonano" le società del settore delle fossili. Aderendo così, formalmente o di fatto, al fossil fuel divestment, il movimento per il disinvestimento dalle fonti fossili di energia che in poco più di dieci anni si è affermato come il più grande fenomeno dal basso nella storia della finanza sostenibile.

Già nel 2015 aveva raggiunto un impatto tale che l'allora segretario esecutivo della Convenzione quadro delle Nazioni unite sui Cambiamenti climatici (Unfccc), Christiana Figueres, “padrona di casa” della Cop21, lo aveva definito il principale motore di successo per i negoziati che portarono allo storico Accordo di Parigi. Sono passati quasi otto anni e la forza del divestment è cresciuta a dismisura: sfiorano ormai i 1.600, con oltre 40mila miliardi di dollari di patrimonio gestito complessivamente, gli investitori che aderiscono formalmente al divestment. Con quelli religiosi in prima fila.

Fra gli effetti principali del successo del divestment c’è che oggi continuare a essere investiti in società fossil fuels può rivelarsi un grosso problema, innanzitutto in termini di reputazione. Chi ancora possiede azioni fossili, e allo stesso tempo comunica di essere impegnato verso obiettivi net-zero (di neutralità climatica) o comunque a supporto della transizione ecologica, viene perlomeno tacciato di greenwashing. Poiché parlare di fossili a risparmiatori sempre più orientati a investire in modo green, etico, sostenibile e responsabile, equivale a gettare loro fumo negli occhi, letteralmente. Se poi va proprio male, si può esser chiamati a rispondere delle proprie dichiarazioni davanti a qualche authority o, peggio, davanti a un giudice. Poiché i grandi attori finanziari finiscono sempre più nel mirino delle climate litigation (i contenziosi legati a questioni climatiche) che negli ultimi anni si sono impennate nel mondo.

Per comprendere quanto l’investimento fossile sia sempre più moralmente inaccettabile di fronte a un’emergenza climatica che si aggrava di giorno in giorno, emblematico è il passo appena compiuto dalla Church of England (CofE), un investitore istituzionale di primissimo piano e non solo in senso simbolico. Church commissioners, l’ente che gestisce il patrimonio della Chiesa d’Inghilterra, ha un portafoglio d’investimenti di oltre dieci miliardi di sterline. È stato proprio Church commissioners ad annunciare che entro fine anno escluderà dai suoi investimenti tutte le compagnie dell’oil&gas. E tutte le altre società attive principalmente nell’esplorazione, produzione, raffinazione di oil&gas, se non dimostreranno di essere realmente allineate alla traiettoria che secondo la scienza darebbe buone probabilità, non la certezza, di mantenere l’aumento delle temperature medie globali entro 1,5°C. Cosa per loro assai ardua: tutte le agenzie internazionali competenti in materia hanno chiarito che ricercare nuovi giacimenti e aumentare la produzione di combustibili fossili è incompatibile con quell’obiettivo. Ma le big dell’oil&gas non ci sentono e continuano a pianificare estrazioni e aumenti di produzione.

L’elenco delle società oggetto del disinvestimento di CofE comprende Bp, Ecopetrol, Equinor, ExxonMobil, Occidental Petroleum, Pemex, Repsol, Sasol, Shell, Total e il colosso italiano dell’oil&gas Eni. Tra l’altro una decisione praticamente identica è stata presa anche dal Church of England Pensions Board, il fondo pensione della CofE (portafoglio d’investimenti da 3,2 miliardi di sterline).

Il passo è stato clamoroso e ha avuto vasta eco internazionale. Ma estremamente significativo è stato anche il percorso con cui ci si è arrivati. Nel suo approccio d’investimento dichiaratamente ispirato a criteri etici e responsabili, la CofE è sempre stata una paladina dell’engagement, cioè del dialogo e confronto con le società investite, comprese quelle fossili, per stimolarle ad alzare l’asticella di pratiche e performance Esg (ambientali, sociali e di governance). La CofE attraverso i suoi organismi d’investimento figura ad esempio fra i sostenitori della Transition Pathway Initiative, che offre a grandi investitori e asset manager internazionali dati e strumenti utilizzabili in strategie di engagement (anche realizzate collegialmente, come nel caso della Climate Action 100+) per spingere le società investite su traiettorie compatibili con le esigenze della transizione low-carbon e gli obiettivi net-zero. Il divestment, quindi, è sempre stato visto come opzione di ultima istanza: si “esce” dall’investimento quando l’engagement ha fallito e si ritiene non possa avere successo in futuro. Che è esattamente quanto accaduto in questo caso.

Nel 2018 il Sinodo generale della CofE aveva indicato un orizzonte di cinque anni per effettuare il disinvestimento dalle compagnie oil&gas che non si fossero allineate agli obiettivi dell’Accordo di Parigi. Sperando nel frattempo di spingerle a farlo attraverso un engagement serrato, che però è fallito. Già nel 2021 la CofE aveva disinvestito da venti società dell’oil&gas. Ora è toccato alle altre.

Il reverendo Justin Welby, arcivescovo di Canterbury e presidente di Church Commissioners, ha dichiarato che le società fossil fuels sono state a lungo esortate a prendere sul serio le questioni climatiche e che ciò significa eliminare gradualmente le fossili. Ma i progressi fatti non sono stati sufficienti. «La Chiesa», ha aggiunto Welby, «seguirà non solo la scienza, ma anche la nostra fede, entrambe le quali ci chiamano a lavorare per la giustizia climatica». Parole in cui risuonano quelle pronunciate un anno fa dal cardinale Michael Czerny, prefetto del dicastero vaticano per il Servizio dello Sviluppo umano integrale: «La temperatura del pianeta è già cresciuta di 1.2°C, ma ogni giorno nuovi progetti riguardanti i combustibili fossili accelerano la nostra corsa verso il baratro. Quando è troppo è troppo».


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