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Gholam Najafi: «Scrivo per ricordare a tutti il mio Afghanistan dimenticato»

Il racconto dello scrittore afghano e della fuga dalla guerra di un Paese «dimenticato e per me indimenticabile, da cui sono fuggito quando ero poco più che un bambino. Per evitare la morte. Come tanti migranti che arrivano in Italia ancora oggi e su cui si abbatte un odio che fa paura e che ignora le nostre ragioni, le nostre storie». Una narrazione che si chiude con un appello all'Italia che lo ha accolto: «Non abbiamo scelto di partire, abbiamo dovuto. Lasciateci ricostruire una storia nuova. Un futuro senza incubi e senza disperazione»

di Gholam Najafi

Non so, non ricordo esattamente quanti anni avevo. Non sapevo quante feste, matrimoni avevamo in programma per quell’anno. Mi ricordo che ogni settimana c’era una festa, una cerimonia. Mi ricordo che era primavera, la neve si era appena sciolta, le piante iniziavano a crescere, a fiorire e la vita dei contadini era sempre più difficile. Le pale, le carriole erano abbandonate in mezzo al campo. Era arrivata la guerra e aveva cambiato ogni cosa. I proprietari delle terre erano impegnati nella guerra o a costruire le strade per il trasporto delle armi. La frutta dei nostri alberi rimaneva sospesa sui rami. La guerra inizialmente era combattuta negli anfratti della montagna, usati come trincee. Era una guerra civile, non tra un'etnia e l'altra, ma all’interno di una stessa etnia. Il cerchio si è stretto fino all’arrivo dei Talebani.

Prima non li conoscevamo questi talebani. Oltre alle nostre case anche le nostre moschee venivano distrutte da loro, i pochi libri che esistevano venivano bruciati, le nostre idee venivano cancellate, le nostre donne rapite e violentate. Una tradizione, che forse per secoli era sopravvissuta in quell'angolo sperduto, veniva spazzata via per sempre, i nostri santuari erano bombardati. Prima di uccidere non ci chiedevano nulla. Se ci avessero chiesto la conversione o altro, solo per non essere ammazzati, avremmo accettato.

Dopo alcuni anni di resistenza, la guerra era diventata più diretta, all’interno delle stesse case. E allora molti di noi abbandonavano il villaggio per nascondersi nelle grotte. Lì la sopravvivenza non poteva durare molto. Non avevamo il pane, ci procuravamo l’acqua da bere dalle sorgenti che erano intorno, vivevamo con gli animali selvatici nelle grotte, i nostri messaggeri erano i colombi. A questo ci hanno ridotto. Ancora oggi facciamo fatica a capire da dove sono saltati fuori questi diavoli.

Ricordo che quando i nostri padri dovevano partire per il Pakistan, le nostre mamme lavoravano per una settimana per preparare il cibo per il loro viaggio. Anni che non tornano più, anni in cui ogni viaggiatore partiva con un pezzo di pane preparato dalla madre, dalla moglie, ma quando la guerra si è intensificata, non avevamo più tempo per preparare il cibo, non avevamo più tempo per salutare i nostri cari, eravamo diventati egoisti, ognuno pensava solo alla propria sopravvivenza. La nostra felicità, la semplicità, le tradizioni, il dialetto, tutto scompariva tra i morti. E coloro che si sono salvati, che oggi si trovano a vivere in ogni angolo del pianeta, si sono avvicinati ad altri dialetti, ad altre tradizioni, ad altri usi e costumi. Le povere donne, che non erano mai uscite dal luogo dove erano nate, sono rimaste in ostaggio. Donne come mia madre, di cui non abbiamo più avuto notizia.

È questo l’Afghanistan di cui nessuno più parla. L’Afghanistan dimenticato e per me indimenticabile, da cui sono fuggito quando ero poco più che un bambino. Per evitare la morte. Come tanti migranti che arrivano in Italia ancora oggi e su cui si abbatte un odio che fa paura e che ignora le nostre ragioni, le nostre storie.

Quando è arrivata la disgrazia, ho lasciato mia madre vicino alla sepoltura di mio padre e sono andato. Dopo la mia partenza dal villaggio, da subito ho iniziato il mio viaggio come clandestino, inconsapevole. Non sapevo nemmeno quali paesi confinassero con l’Afghanistan. Dovevo solo allontanarmi, il più presto possibile: il modo di morire in quella terra mi faceva paura. Ho continuato il mio viaggio fino ad arrivare in Pakistan. Non avevo un luogo di riferimento in mente, i nomi di questi paesi li ho imparati giorno per giorno, non potevo tenere un diario. Proseguii verso l’Iran. Tra questi due paesi ho subito due o tre arresti. Ogni volta che mi arrestavano mi spogliavano da capo a piedi. Continuamente venivamo picchiati.

Eravamo circa duemila persone, condividevamo gli stessi dolori, in prigione non potevamo porre domande ai soldati che ci sorvegliavano, intorno alla prigione c’era un muro, un muro fatto di rete elettrificata. La fuga era impossibile. In altre prigioni abbiamo vissuto sottoterra circondati da scarafaggi, con le scarpe li ammazzavamo sui muri. I numeri delle persone aumentavano ora dopo ora, i pezzi di pane per la sopravvivenza diminuivano, i nostri bagni erano come una stalla con i tubi bloccati, i fumatori morivano accanto a noi, i loro cadaveri non venivano tolti, le tende delle finestre erano chiuse in modo che il luogo della prigionia rimanesse segreto. Molte persone morivano di nostalgia, nostalgia per i cari che erano stati sgozzati dai Talebani.

Dopo giorni o settimane sono arrivato a Teheran, la scansione del tempo si era ormai confusa nei miei pensieri. Poi dall’Iran proseguimmo verso l’Europa attraversando la Turchia e la Grecia, un’ Europa che per me era completamente sconosciuta, non sapevo in quale parte del mondo fosse. Ho raggiunto Venezia aggrappato al telaio di un camion, nascosto e stremato. E a Venezia, per mesi, non ho voluto salire sul vaporetto: le onde della traversata dalla Turchia si erano scolpite nella mia memoria.

Per due anni sono stato ospitato in una comunità per minori non accompagnati. Tutto era bello, accogliente ma con la maggiore età dovevo lasciare tutto e trovarmi una casa, un lavoro, la lingua che in quei due anni avevo imparato non era ancora sufficiente, dovevo ricominciare da zero.

In me ci sono due Gholam, uno che va alla ricerca della sua origine, della sua infanzia, che sta vicino a sua madre. Il secondo invece vive per la sua nuova mamma: la famiglia Rossetto-Fusaro è quella che mi costruisce gli scaffali per miei libri, è quella che mi sostiene nella ricerca di raccontare il mio passato. La mia storia è piena di traumi, gli stessi che popolano le storie degli altri che come me hanno dovuto lasciare la propria casa per evitare la morte, la persecuzione, le atrocità di una guerra senza ragione e senza fine. La nostra vita era altrove. Non abbiamo scelto di partire, abbiamo dovuto. Lasciateci ricostruire una storia nuova. Un futuro senza incubi e senza disperazione.


*Gholam Najafi è scrittore e ha 27 anni. Il suo ultimo libro è una raccolta di sedici racconti e si chiama “Il tappeto Afghano” (edizioni la meridiana)

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