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Giulio, enigmatico divo

film Per flash, la fase discendente della carriera di Andreotti

di Redazione

Èl’opera dei contrasti. Della asimmetria (informativa, formale, estetica, musicale), Della pluralità, non tanto di personaggi quanto di modi di illuminarli raccontandone le diverse anime (grazie a un cast straordinario). Ma pure è opera compatta, implacabile. Per il ritmo. Per il montaggio, che crea continue cesure collegando discorsi. Per la velocità con cui i fatti che accadono a Giulio Andreotti sono messi in scena (più che i fatti, le loro conseguenze, il loro profilarsi guizzante nello stagno di un’esistenza comunque composta). Il divo è fin qui il film più complesso di Paolo Sorrentino, quello che spariglia le certezze e le previsioni con maggior efficacia. Non è una biografia (piuttosto il ritratto di una – un po’ miserabile – classe dirigente in un interno, quello dei palazzi che separano e danno l’illusione dell’autosufficienza). Non è un’inchiesta perché non indaga sul prima e il dopo: mostra il “mentre” (dilatato e sottratto al tempo che diviene). È semmai un ritratto d’artista: punta a sintetizzare una vita con pochi tratti, ed essenziali. Che quei tratti siano sovente ripetuti è un segnale chiaro: l’esistenza può diventare ossessione. Martellante come le emicranie o noiosa come gesti inconsapevoli. Né – da quest’ottica – è rilevante si tratti di uno degli uomini più potenti del Belpaese: Il divo è anche la messa in scena di una condizione umana. Solitaria per definizione, silente per scelta. Non è un caso che l’unico monologo sia al centro del film: Andreotti, cioè Toni Servillo, è appena coinvolto nel processo per mafia e guarda in macchina snocciolando la sua filosofia: per tutelare il bene occorre che qualcuno compia il male.
A far da collante, il raccordo fra corpo dell’attore, sguardo del personaggio e cinepresa. Un raccordo che fa saltare molte convenzioni e dice alcune verità sull’uomo. Verità relative, s’intende, ma molto sottili. Quando, ad esempio, il più volte presidente del Consiglio entra nell’inquadratura comparendo dal bordo inferiore, cosa pensare? Un’entrata in scena atipica riconduce all’enigma ma anche esalta l’eccezionalità (e sussurra allo spettatore: «credevi di sapere tutto…»). Come pure gli stacchi di montaggio sullo sguardo di Andreotti. Ci ricordano che solo un divo può indicare il reale alle persone comuni. E ancora una volta non importa che quella realtà sia vera, verosimile o inventata.

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