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Haiti, l’aiuto che non aiuta. Una riflessione

Uno scritto denso quello del direttore generale di Sos Villaggi dei Bambini Germania in cui racconta come l'aiuto umanitario ad Haiti sia stato incapace di aiutare realmente le persone

di Redazione

È una riflessione amara quella che Wilfried Vyslozil, direttore generale di SOS-Kinderdörfer Weltweit (l’associazione tedesca di Sos Villaggi dei Bambini) affida a una lettera aperta. Al centro della riflessione gli interventi umanitari che, come spiega una nota della consorella associazione italiana, sono «incapaci però di aiutare realmente le persone colpite da disastri». Una disanima dedicata all’aiuto che non aiuta. «Ci sembrava importante» scrivono da Sos Villaggi dei Bambini Italia, «condividere il punto di vista di un collega, da anni impegnato nella attività di Sos Villaggi dei Bambini, su una questione spesso analizzata dai diretti beneficiari, dalle autorità politiche, mai da chi “fornisce aiuto”».
Al centro della riflessione il post terremoto ad Haiti con un’analisi della situazione del paese caraibico che già prima del sisma di due anni fa, scrive infatti Vyslozil, «si trovava già in una condizione talmente miserabile che ogni fenomeno naturale estremo – un terremoto, un uragano o giorni di forti piogge – avrebbe sicuramente causato distruzione e un numero smisurato di morti. E le cose potevano anche peggiorare»

Wilfried Vyslozil
Prosegue il direttore generale di SOS-Kinderdörfer Weltweit: «Fortunatamente c’è una macchina organizzativa degli aiuti che è sempre pronta, in allerta, e che può raggiungere qualsiasi area disastrata in breve tempo. Prima di tutto per salvare i superstiti, poi per gestire l’emergenza e, infine, per la ricostruzione. Sono dei professionisti che sanno bene cosa bisogna fare. Ottengono il denaro necessario dalle campagne di raccolta fondi e da fonti pubbliche, poi assicurano che quel denaro sarà nuovamente speso. A volte, comunque, del denaro finisce nei progetti sbagliati. Le organizzazioni di aiuto mirano ai progetti più evidenti al pubblico, oppure si occupano di un solo villaggio modello, mentre nei villaggi vicini la gente soffre la fame. Questo genere di sviluppi sono spesso oggetto di critica. E, allora, viene fatto qualcosa. Nei casi dei disastri di dimensioni maggiori l’Ufficio per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA – UN Office for the Coordination of Humanitarian Affairs) tenta di coordinare il lavoro delle diverse organizzazioni presenti sulla scena, anche se non sempre con i risultati desiderati».

Gli aiuti
Nel ricordare l’azione di Sos Villaggi dei Bambini, riflettendo sul fatto che più di 500 villaggi si trovano in paesi poveri e soggetti a disastri naturali per cui l’organizzazione dovrà migliorare la risposta rapida alle emergenze, sottolinea la linea d’azione avuta ad Haiti «Il nostro Villaggio Sos a Port-au-Prince ha superato il terremoto senza subire danni, quindi abbiamo aperto dieci nuove unità attorno al nostro Villaggio Sos, cooperando con i residenti dei centri vicini, grazie alle quali abbiamo fornito cibo a 23.000 persone. Il riso – l’alimento di base più importante per Haiti – veniva dagli Usa. Così facendo, finimmo per portare via il mercato più importante ai produttori locali di riso e facemmo più male che bene all’economia locale» osserva a posteriori sottolineando come nel nord del paese, dove le terre sono più fertili, il terremoto non aveva causato alcun danno.
 
Una villa costa più di venti semplici case familiari

La lettera aperta prosegue: «Proprio su queste terre fertili, ora vediamo un esempio di cosa l’aiuto umanitario non dovrebbe mai essere. Nella municipalità di Caracol, nel nord-est di Haiti, sta prendendo forma la più grande area industriale del paese. È stata finanziata con parte di quei dieci bilioni di dollari americani che furono promessi a Haiti dalla comunità internazionale, per gli aiuti nella fase dell’emergenza e per la successiva ricostruzione. Quelle aree sono state predisposte per accogliere industrie dove più di 20.00 uomini e donne in futuro andranno a cucire vestiti per un salario di appena tre euro al giorno.
La società sud coreana Sea-A è la sola beneficiaria della “ricostruzione”, in una regione dove non era stato distrutto nulla. Gli Stati Uniti e la Inter-American Development Bank stanno pagando per l’intera infrastruttura dell’area, incluse la centrale elettrica e gli edifici destinati alle industrie. Inoltre la Sea-A gode di un accesso favorevole al credito per procurarsi le macchine necessarie e di aiuti per le tasse doganali per poter esportare i propri prodotti negli Stati Uniti.
Gli impiegati del complesso industriale, che sono volati lì dalla Corea del Sud, sono impazienti di avere i loro quartieri abitativi, ciò che è noto essere una comunità ben delimitata. Non serve a molto dire che una villa in quell’area costa più di venti semplici case per le famiglie vittime del terremoto. Anche oggi, due anni e mezzo dopo il disastro, ci sono ancora 400.000 sfollati che vivono nella capitale, in città fatte di tende.
Sea-A in particolare è nota per la sua azione spietata contro i sindacati in Guatemala e in Nicaragua, e per la sua capacità di impacchettare i macchinari e partire immediatamente se può pagare dei salari più bassi in un altro paese. Il gruppo ha già chiuso la sua industria in Guatemala. Sulla stampa locale campeggiava questo titolo: “Sea-A va a Haiti”. Anche il Guatemala è stato colpito ripetutamente dai terremoti. Si potrebbe essere così cinici da avventurarsi nel prevedere che quei posti di lavoro appena perduti ritorneranno dopo il prossimo disastro perché i cosiddetti ostacoli agli investimenti, ossia i diritti dei lavoratori e gli standard ambientali, non saranno più un problema?»
 
Gli Stati Uniti volevano risultati immediati
«Come può succedere una cosa come questa?» si chiede Wilfried Vislozil. Per certi versi sconcertante la risposta «Molto semplice: gli Usa volevano esporre risultati immediati per Haiti. I piani per l’area industriale erano già pronti prima del terremoto ma non erano stati trovati degli investitori. Il gruppo sud coreano si fece avanti solo perché i sostegni per la ricostruzione avevano reso le condizioni di investimento considerevolmente più attraenti. Gli sponsor erano contenti che il denaro appena versato fosse speso così velocemente, ma nessuno chiese il parere della popolazione di Haiti: non al sindaco di Caracol né certamente agli abitanti della piccola città.
Quest’esempio potrebbe sembrare estremo ma non si tratta di certo di un’eccezione. L’aiuto viene fornito se qualcuno pensa che è stata trovata una necessità nei destinatari dell’aiuto. Spesso si tratta di una mancanza di cibo. Nell’esempio qui descritto si tratta di una mancanza di lavoro e di performance economica che Haiti soffre da lungo tempo e che è giunta all’attenzione del mondo in gran parte dopo il terremoto».

La riflessione di Vyslozil si chiude constando che: le organizzazioni di cooperazione allo sviluppo e al benessere «non mancano di esperti in grado di redigere e implementare programmi per risolvere questo genere di deficit. Ma le persone bisognose non vengono coinvolte seriamente in questo processo. Dovremmo concentrarci meno su ciò che manca e porre più attenzione su ciò che esiste già. Tutte quelle cose che possono crescere e svilupparsi grazie solo a un piccolo supporto da parte nostra. Questo tipo di intervento richiede un approccio indiretto, necessita di pazienza e non mostra necessariamente risultati immediati. Tuttavia è promettente e sostenibile perché fornisce un incoraggiamento laddove l’impegno e la determinazione esistono già. Ed è veramente umanitario perché prende sul serio le persone che hanno bisogno»
 

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