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Solidarietà & Volontariato

Ho visto il Kosovo che non vuol morire

"Nei dieci villaggi dove siamo presenti la gente sta tornando.La nostra ong aiuta 500 famiglie a ricominciare a vivere:sia serbe che albanesi".

di Nino Sergi

Nel villaggio di Grebnik, sulla strada che da Pristina porta in Montenegro, metà delle case sono state incendiate dall?esercito jugoslavo. I muri anneriti racchiudono i resti deformati di una stufa e di qualche rete metallica, tra le macerie accumulatesi con il crollo del tetto. Qui, tra gennaio e febbraio, la gente ha cominciato a tornare. Nei mesi scorsi erano fuggiti sulle montagne o presso parenti in zone più sicure, ma la relativa calma e il gelo pungente li hanno convinti. A novembre noi di InterSos, l?ong di cui sono segretario generale e che dall?agosto scorso è presente anche in Kosovo con cinque volontari, avevamo contato a Grebnik una decina di famiglie tornate: oggi sono più di sessanta. InterSos s?era impegnata a ricostruire dieci tetti e a fornire finestre, stufe, recipienti per la cucina, coperte, indumenti, sapone, ma ora il bisogno s?è moltiplicato per sei. Ed è aumentato anche il nostro impegno. Così dal 12 al 20 febbraio – proprio mentre a Rambouillet si cercava inutilmente un accordo sul futuro del Kosovo – sono andato di persona a verificare la situazione, a Grebnik e in tutti i dieci villaggi dove siamo impegnati. Cinquecento e quattro, per ora, le famiglie che stiamo aiutando a ricominciare a vivere. Molte le persone anziane, e i bambini. ?Purché la pace tenga?, viene da dire visitando questi villaggi. Entro a Mlecane ammantato di neve, con Federica e Giuseppe, i due volontari che hanno finora seguito le attività in quell?area. Sulla porta di una delle prime case la scritta UCK è a lettere cubitali. Alcuni uomini armati di kalashnikov controllano i movimenti. La bandiera di InterSos è conosciuta e possiamo proseguire. La costruzione dei tetti procede, un po? a rilento per la forte nevicata, ma la gente si impegna, gli uni aiutando gli altri. Occorrerà accelerare la fornitura delle travi e rafforzare l?assistenza tecnica, concorda Giuseppe con il capo villaggio. Anche la scuola ha problemi di riscaldamento e mancano quaderni e libri. Quando parliamo con gli insegnanti, i ragazzi corrono a scivolare gareggiando sulla striscia di ghiaccio lunga una quindicina di metri. Indossano l?ultima fornitura di giacche a vento invernali: un dono prezioso che permette loro di giocare e sorridere. ?Purché la pace tenga?. A poche centinaia di metri, lungo la strada principale, e poco più in là nei carri armati sulle colline, la polizia e l?esercito jugoslavo controllano tutto. Anche loro conoscono la bandiera di InterSos e da qualche settimana ci lasciano passare con i nostri camion senza problemi, risparmiandoci i continui controlli e colpi d?arma intimidatori. È impressionante questa situazione da gatto col topo. Basterebbe un sospetto per trasformarla in tragedia. E potrebbe durare senza fine. I kosovari all?interno dei villaggi e nei campi e boschi adiacenti, i serbi lungo le principali vie di comunicazione e sulle alture a controllare e dominare la situazione. Nei centri urbani, invece, la situazione è diversa. Albanesi e serbi convivono, per lo più separati, ma convivono. Sentono meno la tensione che si respira nei villaggi. Esiste a Pristina un?associazione giovanile dal nome Post-pessimisti: si tratta di giovani ?non ancora ottimisti? ma che vogliono sperare, vogliono vivere insieme, albanesi e serbi, nonostante le difficoltà e le divisioni crescenti. Anche a Klina, centro municipale del distretto di Pec, le comunità convivono. Il sindaco è ovviamente serbo. È preoccupato. Si sente il sindaco di tutti, ma certo ?non delle bande armate?. Ci segnala i nuovi bisogni dei villaggi dove sono rimasti solo albanesi e di quelli dove vivono ormai solo serbi. Ci segnala anche un villaggio misto, Kijevo, poco più di cinquecento persone, serbi, albanesi e rom, che, proprio perché rimaste insieme incontrano seri problemi. La polizia jugoslava protegge l?ingresso al villaggio, dove altri uomini armati fanno la guardia. «Se usciamo, anche solo per prendere la legna, rischiamo di essere colpiti dall?Uck», ci dice un albanese, «ci considerano traditori perché siamo rimasti qui insieme ai serbi». Nelle settimane prossime Federica tornerà a Kijevo a portare cibo, sapone, coperte, legna da ardere. La situazione anche qui è precaria. Vi sono famiglie serbe sfollate da altri villaggi, sistemate nei magazzini della fattoria alla periferia. Salendo verso Istok la presenza nei villaggi è meno densa. Più a nord vi sono famiglie serbe, molte sfollate: la paura le ha fatte fuggire. L?attenzione dei volontari di InterSos è rivolta anche a loro. Non può esserci distinzione tra le vittime. È uno dei principi fondamentali dell?azione umanitaria. Ennio, un altro nostro volontario, parla serbo-croato, può farsi capire senza interpreti. Ciò facilita il dialogo e un rapporto di fiducia. La nostra azione si è concentrata in queste municipalità, con questa gente, albanesi, serbi e rom, tutti toccati dalla sofferenza, dalle conseguenze di questo scontro che è stato lasciato crescere senza far nulla, fino a un punto forse senza ritorno. Un tetto e un riparo a tutti, ci siamo proposti. Dopo la distruzione, la ricostruzione: subito, senza lasciare passare troppo tempo, senza lasciare incancrenire il disagio e il solco di paura e di odio. Da soli è impossibile farcela. Abbiamo chiesto aiuto ai nostri amici di Sdr, Swiss Disaster Relief, impegnati in un programma analogo. Assieme possiamo raddoppiare i risultati. I camion vanno e vengono dai villaggi con travi, teloni di plastica, tegole e finestre. La gente del villaggio li scarica e si inizia a ricostruire. Con il capo villaggio e il consiglio dei responsabili stabiliamo le priorità, i criteri di ripartizione degli aiuti sulla base delle situazioni di maggiore vulnerabilità. Al lavoro svolto dalla gente del villaggio aggiungiamo l?assistenza tecnica di carpentieri e geometri locali. E decidiamo di potenziare anche il gruppo dei volontari di InterSos al fine di accelerare e qualificare maggiormente l?intervento. Ora Francesca avrà il compito di interloquire con le autorità dei villaggi perché tutto proceda per il meglio, senza interruzioni, rispondendo ai bisogni della gente e garantendo una presenza rassicurante nei momenti di maggiore tensione; Paolo, geometra, garantirà una più puntuale assistenza tecnica alle squadre di lavoro. Ho potuto incontrare altre organizzazioni umanitarie italiane. Si tratta di una presenza considerevole e di qualità, con diverse tipologie di azione. I volontari del Cesvi distribuiscono indumenti, coperte, materiale igienico. L?associazione Giovanni XXIII condivide la situazione di disagio delle famiglie kosovare, tessendo occasioni di dialogo tra serbi e albanesi. Il Consorzio italiano di solidarietà è impegnato in 17 centri collettivi con attività psicosociali in favore di anziani e bambini. Il Gvc sostiene attività sanitarie, di pediatria e ginecologia. Quelli di Cric e Cospe distribuiscono alle persone più vulnerabili prodotti igienici e biancheria personale invernale. L?Italia e gli italiani sono visti particolarmente bene da tutti i kosovari, sia serbi che albanesi. I volontari italiani non hanno mai avuto problemi per i visti. Così almeno è stato fino a Rambouillet. Ora però l?insuccesso dell?incontro nel castello francese e le divergenti posizioni dei Paesi del Gruppo di contatto lasciano qualche preoccupazione in più. Ai confini con la Macedonia, alla fine della seconda settimana di Rambouillet, già si notavano grossi spostamenti di colonne di carri armati. Una di queste ci ha bloccati per mezz?ora. L?esercito jugoslavo non aspettava l?esito dell?incontro: si stava dispiegando per far fronte a ogni eventualità. Anche se la gente, forse rassegnata, non pareva preoccuparsi di fronte all?insuccesso che si andava delineando a Rambouillet, la comunità internazionale in Kosovo dava invece segnali di nervosismo e di preoccupazione. Molte sono state le indicazioni perché si evacuasse. Anche a noi organizzazioni umanitarie è giunto pressante l?invito. Un po? troppo pressante. Nessuno di noi vuole essere un martire, né intendiamo affrontare queste situazioni con superficialità. L?esperienza in situazioni analoghe o anche più gravi ci ha insegnato che occorre sempre valutare con attenzione e intelligenza, senza lasciarsi prendere dal panico ma altrettanto senza lasciare in situazione di pericolo il personale umanitario. Sinceramente però, tutto il nervosismo e l?allarmismo lanciato dalla Ambasciate dei Paesi occidentali ci è parso, in quel momento, particolarmente eccessivo. Alcuni dei nostri collaboratori locali, hanno apprezzato il fatto che, dopo attenta riflessione, si fosse deciso di rimanere comunque in Kosovo, al loro fianco in un momento difficile e incerto per la popolazione. Ci hanno detto: «Adesso abbiamo veramente capito perché siete qui con noi». È stata la migliore conferma della bontà della nostra scelta. Come aiutarli INTERSOS organizzazione umanitaria per l’emergenza Via Goito 39 – 00185 Roma telefono 06/4466710 fax 06/4469290 intersos@tin.it Per aiutare INTERSOS in Kosovo: ? Ccp. 87702007 Intestata a INTERSOS Via Goito, 39 00185 Roma ? Conto bancario N. 48163/0 presso Rolo Banca 1473 Filiale “Roma 10” ABI 3556 CAB 3220 Noi restiamo Non ci sentiamo martiri ma l’invito a lasciare il Kosovo era troppo pressante. E siamo ancora qui


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