Diritto alla salute

I medici di famiglia? «Destinati a scomparire se non ci saranno interventi strutturali»

«Già oggi mancano all’appello oltre 5.500 medici di famiglia rispetto al fabbisogno standard. Ma il dato più allarmante riguarda il futuro: entro il 2027 andranno in pensione circa 7.300 medici di famiglia, e i nuovi ingressi non basteranno a colmare il vuoto». Intervista al presidente della Fondazione Gimbe, Nino Cartabellotta

di Chiara Ludovisi

Un mestiere che non piace e non attira i giovani: i più anziani vanno in pensione e nessuno prende il loro posto. Parliamo dei medici di medicina generale, noti anche come medici di famiglia: un mestiere di tutto rispetto, di cui c’è tanto bisogno, ma che pochi, pochissimi oggi vogliono intraprendere. Tanto che la carenza è ormai cronica e ben visibile, questa volta al Nord più che al Sud: le sale d’attesa sono sempre più piene e i medici con posti disponibili sono sempre di meno, tanto che – specialmente in alcune regioni – trovare un medico di famiglia è una vera e propria impresa. E la “libera scelta” non è più tanto libera: è piuttosto una corsa ai pochi medici disponibili, prima che i posti finiscano. La Fimmg (il sindacato maggioritario dei medici di famiglia) ha calcolato che entro il 2026, 15 milioni di italiani potrebbero rimanere senza medico di famiglia. A meno che ogni medico non si faccia carico di 2.500 pazienti: con tutto ciò che questo comporterebbe in termini di tempo e attenzione dedicati a ciascuno. Ovvero, di qualità dell’assistenza.

È questo un pezzo della crisi generale del sistema sanitario nazionale, che minaccia di ledere, o almeno di rendere inesigibile, quel diritto alla salute che è parte fondamentale della nostra Costituzione. Nino Cartabellotta (in foto) è presidente della Fondazione Gimbe, che ultimamente ha messo in luce proprio la grave e crescente carenza di medici di medicina generale. «I dati sono inequivocabili – afferma – Siamo di fronte a un’emergenza strutturale. Oggi mancano all’appello oltre 5.500 medici di famiglia rispetto al fabbisogno standard, e oltre la metà di quelli in attività (54,5%) assiste più di 1.500 pazienti: una soglia considerata “limite” per garantire l’efficacia della presa in carico. Ma il dato più allarmante riguarda il futuro prossimo: entro il 2027 andranno in pensione circa 7.300 medici di famiglia, e i nuovi ingressi non basteranno a colmare il vuoto. Basti pensare che nel 2024 il 15% delle borse di formazione è rimasto scoperto, con punte di oltre il 40% in varie regioni. Se non si interviene con misure strutturali, questi numeri prefigurano un lento ma inesorabile collasso dell’assistenza primaria.

In che modo questa crisi si sta manifestando, in termini di impatto sulla popolazione? Quali gli effetti? E quali le categorie più colpite?

Sempre più cittadini faticano a trovare un medico di famiglia, soprattutto nelle aree periferiche e a bassa densità abitativa, ma anche nelle grandi città. Questo vuoto compromette la continuità assistenziale e spinge molte persone a rivolgersi impropriamente al pronto soccorso, aggravando la pressione su strutture già sovraccariche. A pagare il prezzo più alto sono gli anziani e i fragili, che hanno bisogno di cure continuative, monitoraggio e prossimità. La mancanza di un riferimento sanitario stabile rischia di amplificare le disuguaglianze e di tradursi, per molti, in una rinuncia alle cure.

Quali ritiene che siano le principali ragioni di questa crisi?

La crisi nasce da una combinazione di fattori: un’inadeguata programmazione del fabbisogno professionale, l’assenza di politiche lungimiranti e una progressiva perdita di attrattività della professione. Sempre più giovani medici evitano la medicina generale, percepita come burocratizzata, priva di tutele e poco valorizzata. A questo si aggiunge la frammentazione dei modelli organizzativi e la scarsa integrazione con gli altri servizi territoriali, che alimentano il senso di isolamento di questi medici. La politica, finora, ha risposto con misure tampone – aumento dei massimali, innalzamento dell’età pensionabile – che non risolvono il problema alla radice, ma si limitano a posticiparne gli effetti.

Negli ultimi anni sono cambiati il ruolo e i compiti del medico di famiglia? E come?

Il ruolo del medico di famiglia è cambiato, ma il sistema non ha saputo accompagnare questo cambiamento. Il medico di medicina generale si è trovato a gestire una crescente complessità: l’invecchiamento della popolazione e l’aumento dei pazienti cronici hanno ampliato il perimetro delle responsabilità cliniche, organizzative e amministrative, ma hanno anche reso l’attività clinica più complessa. A questo si è aggiunta una mole crescente di burocrazia, che sottrae tempo alla cura e alimenta il senso di frustrazione. Eppure, questa figura è rimasta ai margini dei principali processi di riforma, come quelli previsti dal DM 77/2022 (un decreto del Ministero della Salute che definisce i modelli e gli standard per lo sviluppo dell’assistenza territoriale nel Servizio Sanitario Nazionale, ndr) e dal PNRR. Senza un pieno riconoscimento del ruolo e un reale coinvolgimento nella riorganizzazione dell’assistenza territoriale, è difficile immaginare un’inversione di rotta.

Quali pensa che possano essere gli strumenti per valorizzare e rendere attrattiva questa professione?

Serve un ripensamento profondo del ruolo del medico di medicina generale, non un “maquillage” contrattuale. Trasformare il medico di famiglia da convenzionato a dipendente non basta, se prima non si compie una seria analisi d’impatto sulle ricadute economiche, organizzative e professionali di una simile riforma. Occorre investire sulla formazione, in particolare istituendo la Scuola di Specializzazione in Medicina Generale. E poi bisogna rafforzare l’integrazione con i servizi territoriali, valorizzare il lavoro in team e ridurre il peso della burocrazia. Solo così la medicina generale potrà tornare a essere una scelta per i giovani medici, e non un ripiego dettato dalla mancanza di alternative.

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