Mondo

I punti vendita? Diventino punti di socialità

Come rilanciarli, cambiando stile

di Redazione

È necessario domandarsi se l’attuale assetto distributivo può supportare
e sopportare l’onere di una funzione sociale di fondamentale importanza.
A partire dal recupero di aree teoricamente marginali La prima considerazione da fare in termini di consumi riguarda la scarsa dinamica dei consumi effettivamente oggetto di scelta da parte dei cittadini, i cosiddetti consumi commercializzabili, e il peso delle mancate liberalizzazioni nello sviluppo economico del Paese.
Contrariamente a quanto sembra sostenere la tesi della saturazione dei consumi di base – dall’alimentazione all’abbigliamento – il problema della spesa che passa per i negozi è la compressione pluridecennale che deve subire a causa del peso crescente delle spese obbligate, soprattutto legate all’ambiente domestico (affitti, luce, acqua, gas e altro). Questi servizi sono offerti prevalentemente da imprese in situazione di oligopolio oppure nell’ambito di mercati troppo o troppo poco regolati. Di conseguenza la dinamica dei prezzi di questi beni e servizi è significativamente superiore a quella riscontrata per i beni commercializzabili.

Un valore aggiunto
Completando questa evidenza con la considerazione che l’aggregazione della popolazione si sposta progressivamente verso nuclei più piccoli – per questa via accrescendo la spesa pro capite per i consumi soggetti ad economie di scala – si spiega il fenomeno dell’espansione delle spese obbligate (dal 24,7% dei primi anni 70 al 37,6% di fine 2009). A questo fenomeno, a ben vedere, non si associa affatto uno sviluppo dei consumi legati al tempo libero (o liberato), cioè quell’area di spesa a maggiore contenuto potenziale di benessere per i cittadini. Il risultato è che a parità di spesa monetaria, la soddisfazione ritratta dal consumo è modesta, almeno in relazione alla situazione sperimentata dai nostri partner europei. Ciò, a sua volta, genera minori incentivi al lavoro e una minore fiducia verso il futuro.
I dati strutturali sono negativamente declinati durante le fasi di bassa congiuntura. L’ICC (Indicatore dei Consumi Confcommercio) presenta una variazione dei consumi pari a -0,7% in termini reali per il 2008, nella metrica dei consumi sul territorio economico, cioè al netto dei consumi degli italiani fuori dall’Italia e includendovi le spese degli stranieri in Italia. Anche per tutto questo 2009, quindi, le prospettive della spesa reale delle famiglie appaiono negativamente orientate.
La perdurante crisi di produttività, redditi e consumi, facilita la saldatura tra la vasta e crescente area dei cittadini-consumatori in difficoltà e gli organismi che dovrebbero prendere decisioni di politica economica: un asse bipartisan che porta, attraverso l’operare acritico dei mezzi di comunicazione, a fare dire ai decisori non ciò che è opportuno ma ciò che le persone vogliono sentirsi dire. E queste, ancora attraverso i media e i sondaggi, a suggerire ai decisori cosa dire. La teoria della demagogia si invera perfettamente, lasciando scoperti i bisogni di riequilibrio strutturale nelle dotazioni di capitale tanto necessarie al Paese.

Non solo gara di prezzi
Certo il commercio non è esente da responsabilità. Il processo di innovazione stenta anche per una questione di cultura. Le vecchie generazioni di imprenditori lentamente lasciano il passo a nuovi soggetti autenticamente vocati e l’impegno delle strutture di offerta è tarato quasi unicamente sulla price competition, togliendo al consumo quel valore aggiunto che dalla stessa distribuzione può provenire. Oggi non si dovrebbe più parlare di commercio come semplice momento d’intermediazione tra produzione e consumo. Esso dovrebbe invece conferire valore aggiunto al tempo del consumatore. Se il retail è semplicemente orientato alla fase d’intermediazione, quel tempo, che non ha valore per chi acquista – nel senso che è perso, cioè rappresenta un costo – viene detratto dal prezzo dei beni e quindi si compra di meno o non si compra affatto.

Non velocizzare la spesa
È necessario ridurre il costo generalizzato della spesa non velocizzandola (mentre fino a dieci anni fa si pensava erroneamente che ci fosse un problema di fretta) ma conferendo valore al tempo. Il ragionamento è rinvigorito, e non attenuato, dalla constatazione che la situazione in termini di consumi è critica. L’utilità marginale di sprecare tempo e di sprecare reddito è particolarmente rilevante: non si può disporre di tempo né di reddito se non in cambio di un’offerta che i distributori devono saper interpretare.
L’efficienza di costo va affiancata dall’innovazione nel formato. Tutte le ricerche, oggi, stabiliscono che il punto vendita è il luogo, nell’accezione estesa di spazio e tempo, in cui si decidono gli acquisti. Non solo e non tanto in termini di marche ma anche del cosa e del come consumare, dove per consumare si intende, in modo finalmente chiaro e radicale, non distruggere, diminuire, ma sviluppare gradevolezza per la propria vita. Anche nei termini di relazione e socialità. Il punto di vendita vende se stesso assieme ai servizi e ai prodotti ed è il principale veicolo pubblicitario o di comunicazione. Parla di valori oltre che di consumi e consumo.
Se queste idee sono verosimili e condivisibili allora è necessario domandarsi se l’attuale assetto distributivo può supportare e sopportare tutti questi oneri, connessi agli onori di svolgere una funzione sociale di fondamentale importanza (e non solo nei centri storici ma anche come veicolo di recupero di aree teoricamente marginali).
L’innovazione del prodotto negozio è rilevante proprio perchè il settore della delivery deve contribuire a ottimizzare le risorse disponibili dei consumatori per migliorare il benessere fruito attraverso i consumi.
Se esiste, e deve esistere, una responsabilità individuale e collettiva per migliorare il benessere del Paese, anche in termini di benessere medio fruito, allora possiamo dichiarare che anche il commercio, può, deve e vuole fare la sua parte.

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