Idee Il ruolo delle associazioni
Attivisti o influencer? La disabilità nella bolla dei social fra visibilità e rappresentanza
Non è semplice distinguere tra chi usa la propria visibilità per sensibilizzare e costruire un cambiamento e chi, magari inconsapevolmente, finisce per trasformare la propria disabilità in uno strumento per ottenere consenso, follower, inviti in talk show o sponsorizzazioni. L'intervento del direttore della Consulta per le Persone in Difficoltà di Torino

Negli ultimi anni, i social network hanno aperto spazi inediti di parola per le persone con disabilità. Per la prima volta, molte di loro hanno potuto raccontarsi senza filtri, senza l’intermediazione di genitori, operatori, politici o giornalisti. Un cambiamento importante, che ha portato all’emergere di voci nuove, dirette, autentiche, capaci di creare empatia e consapevolezza. Mostrare la propria quotidianità, le sfide di ogni giorno, le piccole conquiste o le grandi frustrazioni, può avere un impatto reale su chi guarda: aiuta a comprendere meglio cosa significa vivere con una disabilità, a riconoscere ostacoli invisibili, a cambiare punto di vista. Ed è giusto che accada senza filtri, senza bisogno che ci sia sempre un soggetto “autorizzato” a parlare.
Tuttavia, in questo nuovo scenario, si apre anche una domanda scomoda, ma necessaria: quante delle voci che oggi parlano di disabilità sui social lo fanno per difendere diritti e denunciare ingiustizie, e quante invece lo fanno per visibilità, per popolarità, per coltivare un personaggio?
La linea sottile tra attivismo e personal branding
Non è semplice distinguere tra chi usa la propria visibilità per sensibilizzare e costruire un cambiamento e chi, magari inconsapevolmente, finisce per trasformare la propria disabilità in uno strumento per ottenere consenso, follower, inviti in talk show o sponsorizzazioni. Da attivisti a influencer: il passaggio può essere rapido, e non sempre evidente.
In alcuni casi, si rischia che la disabilità venga spettacolarizzata: la quotidianità diventa contenuto da consumare, la battaglia si trasforma in storytelling, il disagio in engagement. Il sistema dei social premia ciò che emoziona, sorprende, commuove. E così, anche il dolore o la denuncia rischiano di essere modellati per piacere al pubblico.
Proprio per affermare il valore dell’attivismo competente e responsabile, all’interno del Premio Giornalistico Paolo Osiride Ferrero (le candidature per partecipare al premio – con elaborati di carta stampata, video o contenuti digitali – sono aperte fino a settembre) è stato istituito un nuovo riconoscimento: quello dedicato all’Attivista dell’anno. Un modo concreto per premiare chi, attraverso la comunicazione digitale, contribuisce in modo autorevole al cambiamento culturale e sociale in tema di disabilità.
Politici e aziende a caccia di volti noti
C’è poi un altro effetto collaterale da non sottovalutare: il politico o l’azienda che rincorre l’influencer con disabilità per parlare di disabilità. Si tratta spesso di operazioni di visibilità, ben lontane da un confronto autentico sui diritti. Il rischio è che si finisca per personalizzare un tema collettivo, dando credito e centralità a chi ha più visibilità, ma non è detto che sia rappresentativo, competente o preparato.
Negli anni ’90 lo slogan internazionale era chiaro: “Niente su di noi senza di noi”. Ma quel “noi” non era riferito al singolo, per quanto carismatico, bensì alle organizzazioni delle persone con disabilità, nate per rappresentare in modo strutturato e democratico una pluralità di esperienze. Oggi, con la presenza crescente di influencer chiamati a parlare in aziende, tenere speech motivazionali, partecipare a lunch&learn o diventare consulenti di diversity, si rischia di legittimare inconsapevolmente il disability washing: un’adesione di facciata all’inclusione, svuotata di contenuti e competenze reali.
Per questo, oggi più che mai, lo slogan andrebbe aggiornato: “Niente su di noi senza di noi se professionisti”. Perché la disabilità non è un tema da spettacolarizzare, ma da affrontare con responsabilità, esperienza, formazione e senso collettivo.

La nuova intermediazione digitale
Paradossalmente, i social che sembravano offrire libertà di parola rischiano di generare nuove forme di intermediazione: l’algoritmo, il bisogno di like, il consenso del pubblico. Chi parla finisce per adattarsi a ciò che “funziona”, lasciando da parte i contenuti più scomodi, più politici, meno virali. Si creano nuove narrazioni dominanti, in cui la persona con disabilità è spesso rappresentata come “inspirational”, resiliente, positiva. Ma le disuguaglianze sistemiche, le barriere reali, le battaglie collettive rischiano di sparire sullo sfondo.
Il ritorno necessario delle associazioni
In questo scenario confuso, in cui non si capisce più chi è influencer e chi attivista, ritorna con forza il ruolo insostituibile delle associazioni. Organismi che, per natura e missione, non cercano follower, ma risposte. Non inseguono popolarità, ma lavorano ogni giorno per i diritti, per i servizi, per l’inclusione concreta. Le associazioni non devono “funzionare” per l’algoritmo, ma per i loro associati. Non sono al servizio della visibilità personale, ma di una rappresentanza collettiva. Ed è forse proprio da qui che bisogna ripartire. Non per negare il valore delle voci individuali, ma per ricordare che la disabilità è una questione politica e sociale, e come tale ha bisogno di strumenti organizzati, credibili, capaci di agire nei territori, nelle istituzioni, nei tavoli di confronto.
La popolarità di alcune persone con disabilità sui social non è di per sé un problema. Può essere una risorsa, un canale di sensibilizzazione, uno stimolo utile. Ma non può sostituire il ruolo delle associazioni. Perché solo lì, dove si ascoltano i bisogni reali di chi non ha voce, si costruiscono risposte condivise. Solo lì si fa davvero la differenza tra rappresentare sé stessi e rappresentare una causa.
Credit foto: Pexels
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