Idee Nuove professioni per nuovi scenari

Capitale umano per il non profit, dove eravamo rimasti?

Un seminario di Fondazione Marco Biagi e Università di Modena Reggio rilancia il tema della formazione superiore per un Terzo settore che è profondamente cambiato. Quali competenze, per quali realtà?

di Giampaolo Cerri

Sono passati 10 giorni dal seminario Terzo settore e capitale umano, quale contributo della formazione universitaria, che la Fondazione Marco Biagi, fondazione strumentale dell’Università di Modena Reggio che ha in capo la terza missione di quell’ateneo, ha organizzato il 23 maggio scorso.

Tornare ad affrontare il tema della formazione del capitale umano per il Terzo settore è stata una scelta che fa onore alla Fondazione Biagi, alla sua presidente Marina Orlandi Biagi e al coordinatore scientifico Tommaso Fabbri, direttore del Dipartimento di Economia dell’ateneo e autentico ispiratore dell’iniziativa, oltre che alla direttrice, Carlotta Serra.

Un momento degli interventi di Giorgio Fiorentini, a sinistra a Modena, e Stefano Zamagni, videocollegato

Dopo tanti anni, riprende una riflessione su questo tema e che era stata ricca e feconda a cavallo del secolo, generando entusiasmi sia in campo associazionistico sia in quello accademico.

Pochi mesi fa, lavorando al libro dei 30 anni di VITA col compianto Riccardo Bonacina, mi è capitata una copia del giornale, allora settimanale, del 26 gennaio 2001.

In copertina – la potete vedere qui sopra – la foto di tre neolaureati o masterizzati dei pochissimi corsi dedicati allora, quello dell’Università di Bologna con Stefano Zamagni e la Sda Bocconi con Giorgio Fiorentini. Per inciso quei professori-pionieri erano entrambi presenti (o collegati) a Modena e con ottimi e rinnovati argomenti: Zamagni ha posto l’enfasi sulla terza missione accademica, Fiorentini ha proposto alla viceministro Maria Teresa Bellucci un tavolo di lavoro dedicato.

Per tornare a quella copertina, il titolo era: AAA, il non profit ti cerca e i volti erano quelli, certo più giovani ma ancora oggi riconoscibili, di Paolo Venturi, direttore di Aiccon, Paolo Ferrara, direttore generale di Terres des Hommes e Lucia Martina, senior advisor corporate responsibility and sustainability a EY ma anche, in precedenza e per molti anni, colonna di VITA, dove si occupava di consulting.

Gli anni dell’entusiasmo

Fu quella, fra la fine degli anni ’90 e i primi 2000, una stagione di grandi entusiasmi: VITA era appunto nata, avendoli colti nel Paese e nella società, e negli stessi giorni era nato il Forum del Terzo settore e la cooperativa “Verso la Banca Etica” cominciava un lungo cammino che l’avrebbe condotta a creare un istituto di credito unico nel suo genere.
L’entusiasmo, nel mondo del non profit e anche in quello accademico, era collegato a quella crescita e all’idea che l’università avrebbe provvisto delle figure idonee a sviluppare quel movimento importante.

Quello stesso entusiasmo, tuttavia, si andò raffreddando nel volgere di una manciata di anni.

Che cos’era accaduto? Che il mondo di chi si impegna, lavora, progetta senza fine di lucro, pur nella sua apprezzabile crescita, non aveva avvertito forse il bisogno di specializzarsi, di individuare professionalità specifiche, competenze verticali, se si è eccettua forse quella dei fundraiser, di quanti cioè sono deputati al reperimento di risorse fra i cittadini, con lo sviluppo di campagne dedicate ai donatori. O molto probabilmente non ne aveva avuto la forza economica.

Il panel del Terzo settore al convegno di Modena: da sx, Giuseppe Ambrosio, ad di VITA, Raffaella Pannuti, presidente di Fondazione Ant, Stefano Granata, presidente Federsolidarietà, Serena Porcari, presidente di Dyanamo Academy, Antonio Danieli, presidente di Fondazione Golinelli, Bruno Molea, presidente Aics

Per il resto, eccezione fatta per alcune grandi organizzazioni che hanno sviluppato al proprio interno figure professionali in aree diverse, la gran parte delle realtà non profit ha avuto una struttura molto semplificata: da un lato la dirigenza, i ruoli di responsabilità in senso lato, e dall’altro del personale dedicato a mansioni organizzative e operative molto semplici.

Il capitale umano per coprogettare e coprogrammare

Un mondo peraltro che non c’è più, nel senso che, anno dopo anno, la società e i suoi bisogni hanno posto sfide nuove al mondo del volontariato e dell’impegno e all’economia civile.

Non solo, come sappiamo, una riforma, iniziata ormai 10 anni fa, ha interessato tutto il Terzo settore, introducendo cambiamenti importanti, anche e non solo a livello fiscale, regolando per esempio anche la possibilità di svolgere attività commerciali. Da un punto di vista giuridico, poi, anche in recepimento di una sentenza della Corta Costituzionale, nell’ordinamento hanno fatto ingresso i principi della co-programmazione e co-progettazione, fra enti pubblici ed enti di Terzo settore, in relazione ad attività di interesse generali.

Un cambiamento di scenario importante che, anche in relazione alle esperienze di “Amministrazione condivisa” lanciate da diversi comuni, attraverso lo strumento dei Patti di collaborazione fra cittadini attivi e le amministrazioni municipali, ha aperto la via di una nuova presenza degli enti di Terzo settore nella società italiana.

Convegno di Modena, da sinistra Giampaolo Cerri, caporedattore di VITA, Alberto Bellelli, assessorato al Welfare di Regione Emilia-Romagna, Davide Prandi, assessore alla Cura della Città di Reggio Emilia, Maria Teresa Bellucci, viceministro del Lavoro e delle Politiche sociali, Alessandra Camporota, assessore al Terzo settore Comune di Modena e Alberto Alberani, portavoce del Forum del Terzo settore, Emilia Romagna.

Anche rammentando rapidamente questi cambiamenti, è evidente che siamo dinnanzi a un quadro giuridico molto diverso da quello che, alla fine degli anni ‘90, vedeva muoversi le prime realtà accademiche e un Terzo settore che da poco aveva coscienza chiara di se stesso.

Nuovi scenari e valutazione di impatto

Non solo, questo quadro di riferimenti decisamente mutato, in cui il ruolo associativo non è più meramente ancillare ma viene chiamato appunto a processi di co-decisione, si colloca in una fase storica di risorse più scarse a livello nazionale corrispettivamente a una crescita di quelle europee, sulle quali si gioca, e sempre più si giocherà quindi, una serrata competizione internazionale. Le une e le altre poi sono andate sempre più caratterizzandosi per un crescente ricorso della valutazione di impatto che richiede, da parte degli enti finanziati, la predisposizione di processi che possano essere misurati, in luogo della semplice rendicontazione.

Siamo cioè di fronte a un orizzonte giuridico ed operativo che richiede, da parte degli enti di Terzo Settore, competenze diverse e articolate. Ci sarà certamente più bisogno di progettisti, di controllori di gestione, capaci di monitorare gli andamenti dei bandi in cui l’organizzazione non profit e o l’impresa sociale partecipano, di esperti di finanza per gestire al meglio le risorse raccolte e l’accesso al credito, di figure competenti di impatto, in grado di misurare ex-ante l’andamento delle proprie azioni in modo da allinearsi ai livelli dell’output richiesti, di esperti di legal, per verificare la compliance e l’aderenza ai bandi e alle richieste dei finanziatori, e naturalmente professionisti delle risorse umane in grado di ricercare i giusti talenti e di governarne lo sviluppo professionale, perché restino nell’organizzazione.

Lavoro e senso del lavoro, la richiesta della GenZ

Sin qui, però, non abbiamo rammentato l’attitudine dei giovani delle due ultime generazioni, Millennials e Generazione Z, rispetto al lavoro.

Soprattutto da quest’ultimi, secondo le ricerche, arriva una profonda domanda di lavori che possano offrire, oltre alla soddisfazione professionale e alla adeguata remunerazione, anche ragioni e contesti al livello della loro propensione ideale. Giovani, cioè, che esigono di portare le loro competenze, in organizzazioni con le quali ci siano valori e forse anche una visione condivisa della società.

Fenomeni come le cosiddette “grandi dimissioni” o del cosiddetto “abbandono silenzioso”, il quite quitting, dicono infatti di una generazione che pretende ambienti di lavoro con obiettivi aziendali e produttivi, che non provochino crisi di coscienza ma, al contrario, possano offrire dei purposes nei quali ci si possa in qualche misura ritrovare.

Da sinistra, Ambrosio, Federica Bandini, Università di Bologna; Rita Bertozzi, Unimore; Gianluca Salvatore, Fondazione Euricse – Università di Trento; Matteo Pedrini, Università Cattolica Milano

Sensibilità e domande che sembrano perfette per il Terzo settore, con la sua carica di idealità, ma che deve, nello stesso tempo, garantire anche spazi professionali e trattamenti economici adeguati. Per farlo, le realtà non profit devono organizzare il proprio lavoro, in modo che sia possibile sviluppare profili professionalmente elevati, da unire all’immutata carica ideale.

Il ruolo degli atenei e la domanda altra
di professionisti “sociali”

Ecco allora che il ruolo delle università torna a essere decisivo, perché non basterà solo formare i profili specialistici richiamati poc’anzi ma bisognerà prevedere anche per percorsi formativi generici una specifica “curvatura”, perché quelle figure siano adatte a spendere le loro competenze dentro un contesto socio-ambientale specifico come quello delle organizzazioni non profit.

Va da sé, inoltre che alcuni di questi profili potranno essere facilmente spendibili anche in contesti della filantropia bancaria e del privato profit, come quelli delle società benefit, oggi pienamente riconosciuti dalla legislazione, e comunque delle aziende che abbiano deciso di affrontare con strutture dedicate i temi della sostenibilità. Non solo, verso questi profili potrà essere utilmente orientata la domanda delle Pubbliche amministrazioni, che dovranno appunto dare seguito a quanto previsto dalla norma in fatto di co-programmazione e co-progettazione dei servizi sociali.

Competenze interpretative e non solo tecniche

Senza dimenticare però, quello che ha ricordato su VITA Gianluca Salvatori, segretario della Fondazione Euricse dell’Università di Trento, uno dei partecipanti al convegno modenese con cui abbiamo cominciato.

«Oggi», ha scritto, «occorre rigenerare una conoscenza riguardo alle specificità e ai tratti caratteristici delle organizzazioni che compongono il settore, ed al tempo stesso serve offrire nuove chiavi di lettura per interpretare la realtà in cui quelle organizzazioni agiscono. Per arrivare infine a proporre gli strumenti gestionali più adeguati al nuovo contesto. È un lavoro profondo, che coinvolge non solo i giovani neoassunti ma anche chi è già attivo nel settore, spesso chiamato a rivedere il proprio bagaglio di conoscenze per affrontare nuovi scenari».

P.s. Da Salvatori è arrivato il suggerimento di abbandonare “Terzo settore” in luogo di “Economia socialee credo che abbia davvero ragione ma ci vorrebbe (e ci vorrà) un altro convegno per approfondirlo.

Ascolta, sullo stesso tema, il podcast con Vanessa Pallucchi, portavoce del Forum del Terzo settore, QUI, e guarda la registrazione del seminario della Fondazione Marco Biagi, al link sottostante.

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