Idee Giornalismo

Cari colleghi, ve lo dico anche da padre: cancellate l’aggettivo “adottivo” dalla cronaca nera

Una tragedia familiare, un figlio che uccide il genitore, diventa una clamorosa case-history dell'informazione con pochi scrupoli, indifferente verso l'istituto dell'adozione e i suoi fragili protagonisti. Oltretutto in un crescendo di tartufismi. Lo sfogo di un babbo-giornalista

di Giampaolo Cerri

I fatti sono tragicamente semplici: un figlio, Francesco, ha ucciso un padre, Boris, a Luino (Varese). Ma non è un romanzo di Piero Chiara, che lì, in quello scampolo di Lago Maggiore, era nato. Tutt’altro.

Non voglio però parlare di questo, del fatto di cronaca, di liti, coltelli, morte.

Voglio parlare di come le cronache l’hanno riportato: scelleratamente per lo più, a cominciare dalla titolazione, perché ci si è subito premurati di far rilevare al lettore, quello che “scrolla” i social e si imbatte nel profilo del giornale, che l’assassino era figlio adottivo.

Professionista e genitore

Perché io sono giornalista e sono padre adottivo: ho sempre avuto, sin da piccolo, questa malattia di voler raccontare la realtà e le persone che la abitano, e perché poi la vita mi fatto incontrare una storia di accoglienza e diventare padre adottivo.

Ieri, quando ho visto arrivare i titoli di questa vicenda, ho sperato che quel terribile “figlio adottivo” strillato come uno stigma feroce, fosse solo perché il giornale in questione era svizzero, come il povero padre ucciso. I colleghi elvetici, ho pensato in uno sciocco senso di superiorità, non hanno la Carta di Treviso e non hanno neppure l’Ordine dei giornalisti, peraltro. Poche ore e le testate italiane non si sarebbero fatte scappare l’occasione di vellicare la pancia e i polpastrelli dei lettori, secondo i codici del più spietato click-bait, l’arte di prendere all’amo le persone, di carpirne l’interesse in maniera furba o, come in questo caso, senza scrupolo alcuno.

Cosa di meglio di un parricida adottato? Cosa di meglio della vicenda di uno che, un giorno, a quell’uomo, ha detto “papà”, lo ha abbracciato, ha dato e ricevuto baci e carezze, ha stretto la mano per andare al parco, ha giocato a pallone, e che ora lo pugnala?

Le associazioni che si occupano di infanzia in generale e di adozioni in particolare, da anni si raccomandano alla stampa: non usate quell’aggettivo in questi contesti, magari opposto a quello di “vero”, riferito ai figli biologici.

La cocciuta contrarietà della associazioni

La storica Associazione nazionale famiglie adottive e affidatarie – Anfaa lo ripete in modo estenuante, sin dagli anni ’70. Non è un vezzo, non è un’impuntatura: si crea, irrimediabilmente, un marchio di infamia, si crea disagio e dolore, nei genitori e nei figli.

Anche stavolta, il Ciai, storica realtà dell’adozione internazionale, ci ha provato a far ragionare: «Aggiungere la definizione “adottivo” ai termini padre e figlio significa attribuire immediatamente all’adozione una connotazione negativa, come a motivare il compimento di un gesto insano: qualcosa che non aggiunge nulla alla gravità del gesto e al dato di cronaca», ha detto Daniela Russo, responsabile adozioni, spiegando che «le parole hanno un peso : il rischio è di stigmatizzare e condannare a priori le persone adottate e le coppie che scelgono questa modalità differente di fare famiglia. Con rammarico abbiamo assistito a un’occasione mancata di limitarsi ai fatti, di definire le persone coinvolte in questa ennesima tragedia familiare per quello che sono: un padre e un figlio».

Ogni volta però le cronache non conoscono principi, limiti, freni. Pare esser tornati ai tempi del “mostro di Foligno”, Luigi Chiatti, omicida di due bambini, arrestato nell’agosto del 1993: tutti i cronisti si infilarono, sguazzarono, nella sua storia di “adottivo” proveniente dal Brefotrofio di Narni (Tr).

La prova provata che non sia amore alla verità, a motivare la discesa in questi dettagli, ma l’interesse alla cassetta – allora le copie, lo share, oggi i click – è che, come dice il Ciai, mai ci si riferisce a figli “biologici” o padri “naturali” per casi analoghi, che purtroppo non mancano.

Va ora in onda Tartufo

L’aspetto più intollerabile è che, dopo le prime rimostranze, l’aggettivo “adottivo” è migrato dal figlio omicida al padre morto: nell’incredibile convinzione di rendere meno gravi, deontologicamente, le cose.

Oppure, così tartufescamente da ridestare Molière nella tomba per riscrivere il seguito del campione della ipocrisia: si è arrivati a togliere l’aggettivo ma a “inzeccare” la foto del figlio assassino in quella del padre ammazzato: l’uno nero, l’altro bianco. Siamo all’ammiccamento politicamente corretto, insomma.

Un appello, da padre

Come padre, conoscendo le fatiche quotidiane di mio figlio, nell’accettazione di sé, nel fare i conti con la sua storia di abbandono, nel capire quale sia, – come si dice spesso oggi ma stavolta con ragione, il suo posto nel mondo – questa superficialità, questa meschinità, mi urta, mi duole, mi amareggia profondamente.

Come giornalista, mi indigna l’imbarbarimento di chi, per una manciata di click svilisce la propria professionalità in un soffio, senza un minimo scrupolo per il contraccolpo micidiale che migliaia e migliaia di persone possano averne. Semplicemente facendo scorrere un polpastrello su un monitor.

Ci avete mai pensato, cari colleghi?

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