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Così le big tech digitali spengono il desiderio di pensare
Recensione di "Controcomunicazione", saggio di Guido Bosticco e Giovanni Battista Magnoli Bocchi (Franco Angeli, 2025): come si manifesta l’ottundimento del pensiero? In massimo grado con la polarizzazione. Si ha sempre meno voglia di capire le ragioni dell’altro. Che si tratti di decretare chi sia il più grande calciatore della storia, o il miglior film su Batman, o di chi è la colpa di una guerra, comanda la fazione, l’appartenenza emotiva

È un libro molto interessante, Controcomunicazione di Guido Bosticco e Giovanni Battista Magnoli Bocchi (Franco Angeli, 2025). Lo dovrebbero leggere in tanti. Non solo chi si occupa di comunicazione in modo professionale (giornalisti, opinionisti, critici, insegnanti, politici, moderatori di talk show, pubblicitari, social media manager…), anche chi di mestiere fa tutt’altro. Se non altro per rendersi conto, per esempio, che «il potere di parola che chiunque sembra aver conquistato, l’opportunità cioè di parlare potenzialmente al mondo intero e divenire un opinion leader, potrebbe rivelarsi funzionale a un sistema di potere in principio alternativo a quello tradizionale, ma forse più soverchiante e subdolo di quello. In parole povere, per picchiare duro contro i governi e le vecchie corporation si fa il gioco delle big tech digitali, che sembrano essere così diventate più potenti dei governi e delle vecchie corporation».
Senza pensieri
Il saggio non è troppo lungo, in tutto parliamo di 150 pagine piuttosto scorrevoli. Ma gli spunti offerti sono parecchi, e ognuno è meritevole di riflessione. Tra questi, non mancano ragioni di sconforto e inquietudine per il futuro che ci aspetta. Gli autori constatano, non senza una punta di amarezza, che «la tecnica ci ha esonerato, nella storia, da molte attività fisiche faticose, e oggi – in particolare con l’avvento dei sistemi di intelligenza artificiale che già da tempo sono nei nostri smartphone, nei computer, nelle piattaforme TV – tende sempre più a esonerarci anche dal pensare. Gli strumenti scelgono per noi che cosa vedere o ascoltare, in base ai nostri gusti e a quelli di persone profilate come simili a noi, spesso anticipano i nostri desideri, altrettanto spesso li indirizzano. Gli strumenti, soprattutto, selezionano per noi le informazioni, il cosa, il come e il quando presentarcele, e per lo più inquadrano questa presentazione in un contesto interpretativo che ci instrada, perché è confortevole per noi (è creato su misura in base ai nostri interessi) e rafforza le nostre posizioni. Così non dobbiamo fare la fatica di pensare».
Una spiegazione, per quanto non esaustiva, del perché il mondo sia impazzito ai livelli attuali, va forse rimandata proprio a questo fatto che pare acclarato: abbiamo smesso di pensare. Ma come si manifesta l’ottundimento del pensiero? In massimo grado con la polarizzazione. Si ha sempre meno voglia di capire le ragioni dell’altro. Che si tratti di decretare chi sia il più grande calciatore della storia, o il miglior film su Batman, o di chi è la colpa di una guerra, comanda la fazione, l’appartenenza emotiva a un certo modo cristallizzato di vedere il mondo, «giacché le opinioni sfumate e le posizioni di mediazione hanno sempre meno cittadinanza nel circuito mediatico, in particolare sui social media».
Fake news
L’efficacia di una comunicazione, purtroppo, non è legata alla verità del contenuto che veicola. E questo libro, che è anche un libro di tecnica della comunicazione, volto a illustrare i meccanismi che rendono una comunicazione efficace o meno, ha il pregio di prenderne atto senza troppi patemi d’animo. Anche perché le fake news esistono da sempre: «Un esempio, fra i molti, possiamo prenderlo dal 1274 a.C., con la battaglia di Qadesh, nell’attuale Siria, fra gli Egizi e gli Ittiti, due vere super potenze dell’epoca. Sui muri dei tempi di Luxor e di Abu Simbel o nel Ramesseum di Tebe, sono rappresentate le scene di questa battaglia, in cui il faraone Ramses II travolge orde di Ittiti, schiacciandoli sotto le ruote del suo carro e correndo incontro a una fulgida vittoria. Tutti i sudditi dovevano comprendere questo successo, la comunicazione era importante quanto la vittoria. Ebbene le cose non andarono così, la battaglia si avviò verso uno stallo (e anzi semmai furono gli Ittiti a prevalere) al punto che si concluse con la stipula di un trattato di pace, divenuto assai famoso».

Per quanto riguarda l’oggi, il tema è talmente pervasivo che non si può affrontare secondo schemi troppo scontati, quelli per i quali se crediamo all’allunaggio, alla terra rotonda, ai vaccini e al riscaldamento globale, allora siamo intelligenti e al riparo da qualsiasi manipolazione della realtà. Il fatto è che «tutti noi fruiamo delle fake news, quando esse coincidono o sono nell’area delle nostre convinzioni e del nostro pregiudizio. Se io ho un’opinione su un fatto e trovo un elemento di conferma, non mi insospettisco: posso non dargli troppo peso o posso invece aggiungerlo al mio bagaglio per rafforzare la mia idea, ma difficilmente mi impegno per metterlo in dubbio, per metterlo alla prova, per testarlo, per fare debunking, se volete». Vale per chi crede nelle scie chimiche, vale per noi che ci sentiamo colti e intelligenti e sempre dalla parte giusta.
Relativismo o verità?
Siamo dunque condannati a un relativismo che metterà in gioco per sempre qualsiasi nostra certezza? Già nel dibattito social attuale, non di rado mi è capitato di leggere commenti di questo tenore: “la verità è un concetto superato, guardiamo alla situazione concreta”». Mi è capitato soprattutto parlando della guerra che infiamma, da tre anni, l’est Europa. Sono stato in Ucraina tre volte, dall’inizio della guerra, e ogni volta ho riportato la mia testimonianza diretta, in aperta contraddizione con un certo racconto che farebbe degli ucraini un popolo al servizio degli Usa e di loschi interessi occidentali. Non potendo contestare la testimonianza diretta – a meno di non darmi del contaballe, e qualcuno l’ha pur fatto… – mi è stato contestata l’idea che si debba partire dalla verità: “è un concetto superato”. Qui, naturalmente, si pone l’eterno problema: nel momento in cui lo affermi, stai affermando una verità, la tua verità, e quindi cadi in contraddizione. Ma lasciamo perdere le finezze epistemologiche. Guardiamo al concreto, come mi è stato consigliato di fare. Seguendo questa logica, gli ucraini, invece di attaccarsi alla verità di avere subito un’aggressione, avrebbero dovuto rinunciare al Donbass subito, e così facendo non ci sarebbero stati tutti quei morti! È la logica del professor Orsini. Che se applichiamo anche a Gaza, però, ci costringerebbe a dare ragione a Trump: perché non spostare i palestinesi altrove e fare di Gaza una riviera per ricchi? Questo risolverebbe molte cose, no? Be’, c’è un piccolo problema, e questo problema si chiama, ancora una volta, verità. Se gli ucraini avessero detto, nel 2022, va bene, prenditi il Donbass, Putin si sarebbe preso l’Ucraina tutta intera. E se i palestinesi venissero dislocati in terre estranee alla loro tradizione, questo significherebbe l’annichilimento di un intero popolo.
La verità, oltretutto, in casi come questi non ha bisogno di chissà quali tortuose elaborazioni: chiunque bombardi civili è un criminale.
Ritornare a pensare
Dalla verità non si può prescindere. Se io credo con i vaccini mi iniettino un microchip per controllarmi non potrò che agire di conseguenza, perché quella, per me, è la verità. E sulla verità, su ciò che crediamo tale, noi impostiamo ogni istante della nostra esistenza. Quello da cui si prescinde, invece – lo abbiamo accennato sopra ed è anche una tesi del libro – non è tanto la verità, quanto il pensiero. Ma cosa vuol dire pensare? Questo è un bel tema. Dal quale però siamo continuamente distratti. Il mondo digitale ci regala tante, tantissime cose. Perché ha trasformato ogni cosa – dai due sfigati al concerto dei Coldplay ai bambini mutilati a Gaza – in intrattenimento. Ma poi non è vero che ce le regala. Perché esige da noi un prezzo altissimo, esige la nostra attenzione, il bene più prezioso che c’è, in questo momento, sulla faccia della Terra. Distratti, abbiamo sempre meno tempo per pensare. Pensare vuol dire certamente leggere, approfondire, farsi aiutare da chi ne sa di più, non accettare certe semplificazioni, ragionare sulle varie posizioni, tentare mediazioni (la verità sta nel mezzo, diceva Aristotele), valutare i fatti, capire certi meccanismi eccetera. Ma significa soprattutto guardarsi dentro. Avere attenzione per noi stessi, cioè per ciò che ci costituisce, e ciò che ci costituisce è una esigenza di verità e giustizia infinite, che non si possono risolvere nelle parole di un talk show o di una polemica sui social.
Il passo che più mi è piaciuto del libro di Bosticco e Battista Magnoli Bocchi è questo: «Un venditore di automobili abile sa adattare le proprie argomentazioni alle esigenze e ai valori del cliente che ha davanti. La stessa auto può essere presentata come “la più sicura”, “la più elegante”, “la più economica”, “la più venduta” o “la più alla moda”, a seconda delle priorità dell’acquirente. Dipende dalla capacità del venditore di intuire i desideri e le preoccupazioni del compratore, cioè se, per esempio, ha paura di guidare, se vede l’auto come simbolo di prestigio, se è attento ai costi, se preferisce un modello molto diffuso per sentirsi rassicurato o un modello esclusivo per distinguersi: il venditore modifica la propria strategia di persuasione sulla base della percezione che ha del suo interlocutore. La macchina invece è sempre la stessa».
La macchina invece è sempre la stessa. Ecco, pensare serve a farci trovare la macchina, sotto tutte le allusioni e strategie che il venditore mette in atto per convincerci a comprarla. La macchina, in un certo senso, è la verità. Sempre che sia una macchina e non uno scaldabagno. Ma questo sta a noi scoprirlo.
Foto di William Felipe Seccon su Unsplash
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