Idee Medio Oriente
Palestina: l’inazione che uccide uomini, donne e bambini
Di fronte al massacro che abbiamo sotto gli occhi a ogni ora «l’imminente Assemblea Generale delle Nazioni Unite, con gli interventi dei Capi di Stato e di Governo, è l’occasione per far propria la "Dichiarazione di New York", adottata lo scorso 30 luglio 2025, che chiede la fine del conflitto sulla base della soluzione dei due Stati. Alcuni Paesi, tra cui Francia, Regno Unito e Canada, hanno già annunciato il riconoscimento dello Stato di Palestina, come passo per avviare il processo di pace. Sarebbe un atto politico e simbolico di enorme rilievo, che ci auguriamo l’Italia non eluda». L'intervento del presidente emerito di Intersos
di Nino Sergi

Non avrei mai immaginato che, di fronte a massacri, fame deliberata, espropri e occupazioni indebite, arresti sommari e deportazioni arbitrarie, distruzione fisica e morale, apartheid e disprezzo di esseri umani — crimini di guerra e contro l’umanità — insieme alla volontà di occultare la verità, soffocando la libera informazione e arrivando perfino all’uccisione di giornalisti, mentre si dà spazio a buffoni e influencer pagati per mentire, potessero diffondersi forme di comprensione, qualche volta perfino di giustificazione o, più spesso, la tendenza ad annacquare i fatti, spostando l’attenzione altrove, su temi anche importanti ma non focalizzati sul crimine in corso contro le popolazioni civili e sul disprezzo per istituzioni, trattati e norme internazionali.
Eppure è accaduto, anche tra persone con cui ho condiviso battaglie per la libertà, la dignità di ogni essere umano e la difesa dei diritti fondamentali, sempre dalla parte degli oppressi, in Paesi schiacciati da dittature criminali, con sistemi di apartheid e di oppressione. Almeno per coloro che conosco, tutto nasce in buona fede; quindi prima o poi le cose si chiariranno. Ma non per questo mi appare meno sconcertante, quasi surreale.
Si afferma certo (e come potrebbe essere altrimenti) che il governo Netanyahu, con i suoi ministri fanatici, rappresenti il peggiore esecutivo che Israele abbia mai avuto e che quanto accade ai civili di Gaza sia aberrante. Ma il discorso spesso evita di approfondire i crimini che Israele sta commettendo contro i civili palestinesi a Gaza e in Cisgiordania, anziché denunciarli con forza, mobilitandosi e mobilitando i propri mondi di riferimento: uccisioni indiscriminate, distruzioni su vasta scala, camion di aiuti alimentari lasciati marcire appena fuori da Gaza, sfollamenti continui, condizioni di vita sempre più precarie, disperazione crescente. Si dimentica quasi che di fronte a una catastrofe umanitaria occorre agire, e agire subito: ogni altra questione, pur importante, diventa secondaria e serve solo a rimandare gli interventi necessari e a ridurre l’umanità a strumento piegato agli interessi politici.
Il discorso scivola perlopiù su temi quali la veridicità dei dati sulle morti civili, le distruzioni, la malnutrizione dei bambini, l’origine della carestia e della fame a Gaza, i massacri circoscritti agli “scudi umani”, l’adeguatezza della parola genocidio, quasi che fosse il termine a determinare la fine del massacro, la militanza o la correttezza istituzionale di Francesca Albanese e la completezza delle sue fonti, la correttezza o meno di carte geografiche sull’occupazione israeliana che circolano, la presunta nullità dell’Onu e l’inaffidabilità delle sue Agenzie, il confronto tra dichiarazioni di esponenti ebrei o palestinesi, l’antisemitismo attribuito alle critiche a Israele, l’argomento del “altri hanno fatto peggio” , la resa senza condizioni di Hamas con la liberazione di tutti gli ostaggi, eccetera. Temi anche giusti, alcuni, ma che finiscono per spostare l’attenzione dal crimine in corso, lasciando che nel frattempo continuino i massacri e si rafforzi quel disegno di “soluzione finale” contro i palestinesi, sempre più evidente nella politica israeliana (e non solo).
Da mesi assistiamo a quello che appare come uno dei più gravi crimini “accettati” dalla comunità internazionale, pur avendo superato ogni principio di proporzionalità e assunto il carattere di una criminalità deliberata e continuativa
Da mesi assistiamo a quello che appare come uno dei più gravi crimini “accettati” dalla comunità internazionale, pur avendo superato ogni principio di proporzionalità e assunto il carattere di una criminalità deliberata e continuativa. Mentre in tutto il mondo la società civile si è mobilitata con imponenti manifestazioni, spesso affrontando reazioni governative sproporzionate e insensate, non si è registrato quel moto di indignazione né quella reazione forte e decisa da parte degli Stati che abbiamo visto in passato di fronte a crimini di oppressione politica e di apartheid. Gli Stati si sono fermati a sterili appelli e dichiarazioni di principio.
Ha avuto forse seguito la richiesta ad Israele, formulata il 21 luglio 2025 dai Ministri degli Esteri di 30 Paesi, tra cui l’Italia, che chiedeva la revoca delle restrizioni agli aiuti, la possibilità per le organizzazioni umanitarie di operare in sicurezza, la protezione dei civili e il rispetto del diritto internazionale umanitario? Venivano respinti lo sfollamento forzato e i piani di insediamento, e condannate l’espansione delle colonie e le violenze dei coloni. Parole condivisibili ma rimaste tali. Nessuna decisione su sanzioni economiche e finanziarie, embargo sulle armi, sospensione di accordi militari e politici, sostegno alla Corte penale internazionale o altro. L’impotenza domina le democrazie europee, lasciando campo libero al più brutale esercizio della forza.

C’è stato l’orrore del 7 ottobre che ha indignato il mondo e ha portato — oltre alla definitiva condanna di Hamas e del Jihad islamico — a un ampio sentimento di profonda vicinanza verso Israele e al riconoscimento della sua legittima reazione. Ma quella reazione è stata condotta come se tutto fosse permesso: non colpi mirati per neutralizzare o arrestare i responsabili (come Israele ha dimostrato di saper fare con precisione), bensì una risposta generalizzata e vendicativa, con la volontà di annientare i palestinesi di Gaza, compresi i bambini (il 31% del totale dei civili uccisi, secondo fonti delle Forze di difesa israeliane dell’Idf), e con la distruzione del loro territorio e della loro stessa presenza. Israele ha mostrato disprezzo per le istituzioni internazionali di cui è parte, indifferenza verso i limiti e gli obblighi stabiliti dal diritto internazionale umanitario e chiusura agli aiuti umanitari, sostituendo le organizzazioni indipendenti con strutture sotto controllo militare come la cosiddetta Gaza Humanitarian Foundation, divenuta parte del meccanismo di guerra.
Quest’ultima operazione militare su Gaza City, devastante per un popolo già stremato e inutile per una leadership già sconfitta e senza più credibilità, rappresenta — con la corresponsabilità di molti Stati, incluso il nostro — uno spartiacque: dalla stagione seguita alla Seconda guerra mondiale, con i tentativi di regolare la convivenza internazionale, si passa a una nuova era segnata dal ritorno a logiche di potenza e mire coloniali.
Israele ha colpito anche bambini, donne, anziani, nonché scuole, ospedali e chiese, impedendo l’ingresso di cibo e aiuti. Una brutalità senza limiti, criminale e dai tratti genocidari. Così ha minato la propria credibilità internazionale, che potrà recuperare solo cambiando rotta, garantendo ai palestinesi una terra sicura e riconosciuta. Due popoli, due Stati: unica via di salvezza per entrambi.
Nessuno mette seriamente in discussione l’esistenza dello Stato di Israele, che si è consolidato e ha ampliato il proprio controllo territoriale ben oltre i confini riconosciuti dal diritto internazionale, spesso attraverso metodi disumani. L’evocazione costante di una minaccia esistenziale è stata funzionale a giustificare crimini di guerra e quotidiani crimini contro l’umanità. Anche il 7 ottobre, pur tragicamente e profondamente presente nella coscienza israeliana, è diventato il pretesto di una violenza senza fine.
In molti siamo stati dalla parte di Israele ogni volta che era giusto, legati anche dall’affetto per il popolo ebraico, la sua storia, le sue sofferenze e la necessità di affermare la propria esistenza in sicurezza, sia nella diaspora sia nella propria terra nazionale. Lo siamo ancora, oggi anche per la disgrazia di vederlo guidato da governanti pronti a qualsiasi crimine, fanatici che sanno come usare i testi sacri per fare proseliti, superando perfino i fanatismi religiosi già conosciuti e combattuti.
La Palestina va difesa integralmente. I palestinesi vanno tutelati, e va riconosciuto loro il diritto, in sicurezza, a una propria terra e a uno Stato – Dawlat Filasṭīn -, come sancito da decisioni internazionali vincolanti. Anch’essi hanno conosciuto la disgrazia di governanti incapaci o criminali ma ciò non autorizza altri a decidere prepotentemente del loro destino, rubando terra e futuro. Riconoscere lo Stato di Palestina è urgente: è il segnale che Israele deve fermarsi. Non è “inutile”, come sostengono alcuni, perché proprio l’aggressività crescente di Israele rende tale riconoscimento indispensabile. Senza Stato palestinese, anche Israele rischia problemi senza fine.
L’imminente Assemblea Generale delle Nazioni Unite, con gli interventi dei Capi di Stato e di Governo, è l’occasione per far propria la “Dichiarazione di New York”, adottata lo scorso 30 luglio 2025, che chiede la fine del conflitto sulla base della soluzione dei due Stati. Alcuni Paesi, tra cui Francia, Regno Unito e Canada, hanno già annunciato il riconoscimento dello Stato di Palestina, come passo per avviare il processo di pace. Sarebbe un atto politico e simbolico di enorme rilievo, che ci auguriamo l’Italia non eluda, Questa stessa direzione è chiaramente indicata nella petizione promossa da 70 ex ambasciatori al Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, per la quale continua la raccolta di firme, in vista della posizione italiana all’Assemblea dell’Onu.
Nella foto La Presse: Alaa Hassanein trasporta il corpo della nipotina di quattro anni, Sara Hassanein, uccisa durante un attacco militare israeliano contro una scuola utilizzata come rifugio, fuori dall’ospedale Al-Shifa, a Gaza.
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