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Il non-senso di Odifreddi

di Riccardo Bonacina

Una giovane, e preferita (per grinta e svegliezza), collega, mi manda una mail che ripropongo integralmente:

Caro Riccardo, volevo segnalarti il nuovo blog di Repubblica.it, Il Non Senso della Vita con nuove e illuminanti esternazioni del matematico Odifreddi. Come l’apertura: «Guardandosi attorno, ci si accorge che la grandiosità delle domande che la gente si pone è inversamente proporzionale alla loro capacità di capire le eventuali risposte. Le cosiddette “domande di senso” costituiscono l’esempio tipico: invece di domandarsi come funziona un telefonino, ci si chiede qual è il senso della vita. E non ci si accontenta della risposta che non solo il senso non c’è, ma che non ha neppure senso chiedersi se ci sia» Che finalmente la gente capisca il non-senso di Odifreddi (un uomo che ha bisogno di riflettere per capire come funziona un telefonino, evidentemente)!

Che dire alla giovane collega? Odifreddi sarebbe poco più di un simpatico avventore di talk show dallo spiccato accento torinese, se non fosse espressione organica di un modo indecente di guardare all’uomo e perciò di progettare il suo uso e consumo. Riducendo  l’uomo ai suoi antecedenti biologici, psicologici e sociologici lo si depriva di ogni singolarità e di ogni grandezza, riducendolo al più, alle dimensioni di un telefonino, senza domande e senza desideri, un essere puramente funzionale. Reinhold Niebuhr, grande teologo protestante americano ( e nume ispiratore anche di Obama), scriveva che «Non c’è risposta più assurda di quella a una domanda che non si pone». È proprio così, credo che la grandezza di un uomo la si misuri dalla grandezza delle sue domande quotidiane.

Proprio ieri sera, mia moglie, mi ha fatto rileggere una poesia di Umberto Saba (Ulisse), il poeta più domestico che ci sia, ma che eppure non ha rinuciato a tener desta una domanda pienamente umana dentro il piccolo quotidiano. Ve la ripropongo, tanto per rifarci la bocca da Odifreddi:

Nella mia giovanezza ho navigato lungo le coste dalmate. Isolotti a fior d’onda emergevano, ove raro un uccello sostava intento a prede, coperti d’alghe, scivolosi, al sole belli come smeraldi. Quando l’alta marea e la notte li annullava, vele sottovento sbandavano più al largo, per sfuggirne l’insidia. Oggi il mio regno è quella terra di nessuno. Il porto accende ad altri i suoi lumi, me al largo sospinge ancora il non domato spirito, e della vita il doloroso amore.


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