Pinguini in giro per Reykjavik non se ne vedono più. Volatilizzati, dati per dispersi, forse estinti. E pensare che fino a qualche mese fa ? ottobre 2008 – li si poteva vedere in tutto il loro splendore, petto in alto e gessato nero, a frotte davanti l’Althingi (il parlamento), ammiccanti nei caffè alla moda del centro, tutti impettiti a bordo di possenti fuoristrada. La crisi, gli islandesi, te la raccontano così: a mollo in una vasca termale a cielo aperto, affogando la rabbia nell’acqua sulfurea , momento di cottura preferito a 40 gradi, con il dito puntato contro quei ragazzotti in nero, i banchieri-pinguini che hanno lanciato il paese verso il crack finanziario più clamoroso della storia dell’economia mondiale. Con le tre principali banche (Kaupthing, Glitnir e Landsbanki), privatizzate nel 2002, subito gonfiate come palloni aerostatici, arrivando a capitalizzare più di 100 volte il Pil, poi collassate e infine nazionalizzate d’urgenza. Sul tavolo resta un conto salato per i 320 mila contribuenti, pari a 100 miliardi di dollari di debiti, 312 mila dollari a testa. Tanto per dare un’idea è come se in Italia si chiedesse alla città di Verona e ai suoi abitanti di sostenere quattro manovre finanziarie per tutto il Paese. «Vuoi comprare la seconda casa, un fuoristrada o magari il motoscafo? Nessun problema, i soldi non mancavano mai: bastava produrli. Accendi un finanziamento in yen con tasso di interesse al 3% contro il 15% di uno a valuta islandese». Hautung, 32 anni ex consulente finanziario, si gode in piscina il sussidio di disoccupazione – 800 euro per quel piccolo esercito che è il 10% degli islandesi rimasti senza lavoro – ricordando gli anni ruggenti della speculazione senza freni . Quaranta gradi in vasca, sette fuori, a metà agosto. «Negli anni del boom», ricorda, «nuotavamo nei soldi. Tutti quanti. La banca centrale alzava i tassi all’inverosimile per rendere più attrattivo il nostro debito pubblico, che continuava a crescere. E alle casalinghe, i banchieri consigliavano investimenti da raider di borsa, arbitraggi di valuta per comprare, indebitarsi e spendere ancora di più. Questo non era più un Paese ma un hedge fund. Tutti con tre auto di proprietà, ma pieni di debiti che oggi non possiamo più pagare. Ho visto gente che ha dato fuoco al proprio veicolo pur di rientrare dei soldi dell’assicurazione. Abbiamo perso tutti la testa, speculando senza sostenere una crescita dell’economia reale. La crisi è una benedizione, la miglior cosa che ci potesse capitare».
Finnur Oddson è direttore generale della Camera di commercio d’Islanda e ostenta ottimismo come quasi tutti i suoi connazionali, malgrado negli ultimi due mesi siano fallite altre 100 aziende. Tutte legate al settore delle costruzioni, della finanza e del pesce. «La nostra economia», dice, «si basa su quattro pilastri: energia rinnovabile (geotermica), turismo, pesca e le tecnologie. La finanza incide ancora per il 25% del Pil ma è destinata a perdere peso, fino a diventare un accessorio, un mezzo per lo sviluppo. Grandi risorse stanno arrivando dai fuoriusciti dal sistema bancario. Spesso giovani talenti, cavalli di razza, mandati a studiare nelle migliori università ma utilizzati solo come macchine da soldi».
L’ansia anti pinguini in Islanda è palpabile. Il suo simbolo sta in riva al porto, dove Landsbanki sosteneva la costruzione di una gigantesca Casa dell’Opera, sul modello faraonico di quella di Sydney, accanto cui edificare il futuro quartier generale della banca. Del progetto restano solo i ponteggi, di Landsbanki neppure più l’insegna che oggi, nazionalizzata, si chiama Islandbaki. «Fino all’anno scorso», racconta Miguel, un ingegnere spagnolo che ha aperto in Islanda la sua società di Tlc Amivox, «non riuscivo a trovare un ragazzo in gamba da assumere. I migliori cervelli venivano assorbiti dai mastodonti del credito con salari superiori di 5 o 6 volte rispetto a quelli di un’impresa normale». E tutti i giovani si adeguavano: in fila per iscriversi a corsi di ingegneria finanziaria, aule deserte in quelli sulla fisherie economics. «La catastrofe finanziaria ci sta aiutando a fare pulizia. Ora chi ha liquidità vuole investire in piccole imprese, come la nostra, con un’aspettativa ragionevole di crescita e di guadagno, ma basata su una produzione reale».
Nei grandi capannoni in disuso di fronte al porto la Nuova Islanda prende forma. Ci sono atelier di abbigliamento, che non imitano più la moda francese o italiana, ma confezionano capi di lana ovina su modello tradizionale; arredamento di design a partire da materiali come la lava. «Girerò un film su questa crisi non parlandone affatto», dice Arnar Sigurdsson, filmaker che ha vissuto metà dei suoi 29 anni all’estero. «È la storia di un uomo che sogna di viaggiare. Colleziona mappe geografiche, le studia, chiude gli occhi e immagina di vivere mille vite. L’islanda di domani invece sarà capace di sognare ad occhi aperti, di vivere una sola vita ma pensando alle prossime generazioni».
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