Escalation

Il salesiano in Pakistan: «Il Paese non sopporterebbe un conflitto su larga scala»

«Nel Paese si parla ancora poco di questa possibile escalation», dice il salesiano di Missioni don Bosco, Piero Ramello, che vive in Pakistan. «Da qualunque punto di vista la si guardi, un conflitto su larga scala sarebbe l’ennesima tragedia per i cittadini, che da anni vivono schiacciati tra la crisi economica e i disastri naturali»

di Anna Spena

Come ritorsione per l’attentato del 22 aprile a Pahalgam (che ha causato la morte di 26 persone, per la maggior parte turisti indiani), nel Kashmir indiano, nella serata di martedì 6 maggio l’aviazione militare dell’India ha effettuato raid aerei con missili, colpendo vari siti in Pakistan e nel Kashmir amministrato dal Pakistan. Gli attacchi hanno provocato almeno 34 vittime e decine di feriti, spingendo il premier pakistano Shehbaz Sharif a definirli un «atto di guerra». Precedentemente l’India aveva puntato il dito contro Islamabad, accusando il Paese di fare «endorsement per questi terroristi che hanno compiuto una strage di turisti».

Il salesiano di Missioni don Bosco, Piero Ramello, vive nel Paese da diversi anni. «Stando alle informazioni che atttualmente ho a disposizione», racconta, «il Pakistan si è ritenuto estraneo agli atti terroristici a Pahalgam e ha anche chiesto un’indagine per stabilire chi erano i mandanti, ma l’India non ha voluto saperne. Il governo pakistano in realtà è impegnato a fronteggiare diverse minacce terroristiche interne, in modo particolare la delicata situazione nella regione del Baluchistan, teatro di frequenti attentati da parte di gruppi separatisti. I giornali ne parlino pochissimo».

Secondo Ramello, «l’India non ha voluto procedere con l’indagine sui mandanti di quell’attentato, forse perché cercava qualche pretesto anche per cominciare una guerra con il Pakistan. La tensione tra i due Paesi esiste da anni. La speranza è che le azioni militari terminino presto». Uno dei nove missili lanciati dall’India «è caduto sulla moschea di una città nelle vicinanze di Lahore, dove ci troviamo come Missioni don Bosco. Di fronte a questi eventi il Pakistan, soprattutto per motivi di propaganda interna, ora promette grandi vendette. Ma l’esercito pakistano non deve alimentare questa escalation».

La situazione umanitaria in Pakistan è complessa e delicata. Schiacciata tra la povertà e l’impatto, sempre più severo, dei disastri legati al cambiamento climatico. L’alta inflazione e il peso opprimente del debito nazionale erodono il potere d’acquisto di milioni di pakistani, rendendo l’accesso a beni primari come cibo e servizi essenziali una lotta quotidiana. «La situazione era migliorata rispetto allo scorso anno», dice Ramello. «Ma rimane comunque fragile».

Le alluvioni catastrofiche del 2022 continuano a lasciare cicatrici profonde, con oltre un milione e mezzo di persone ancora costrette a vivere lontano dalle proprie case e un’ampia fetta della popolazione alle prese con la mancanza di cibo e un’assistenza sanitaria inadeguata. Le successive stagioni monsoniche del 2023 e del 2024 non hanno fatto che rallentare i faticosi tentativi di ripresa, causando ulteriori ondate di sfollamento. La questione dello sfollamento assume dimensioni ancora più ampie se si considera la presenza di un consistente numero di rifugiati afghani sul territorio pakistano. Tuttavia, un elemento strutturale rimane invariato: «quello che è evidente, anche la gente lo capisce insomma, è che in fondo il potere è comunque in mano all’esercito». Un chiaro esempio di questa dinamica è rappresentato dalle recenti elezioni, dove «il partito di Imran Khan che in realtà ha ottenuto la maggioranza poi non è andato al Governo e l’ex presidente è tuttora ancora in galera con oltre 100 capi di imputazione per aver fatto cose non gradite all’esercito».

AP Photo/K.M. Chaudary/Associated Press/LaPresse

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