Non profit

Il segreto per crescere? Imparare a vendere ai propri vicini

di Redazione

Pascal Lamy, numero uno della Wto, traccia una road map per lo sviluppo africano nell’anno della grande crisi. Puntare sulle esportazioni non paga: bisogna prima sviluppare in commercio interno, che pesa solo per il 10% sul Pil del continenteLa crisi economica che sta colpendo l’Europa e l’insieme dei Paesi occidentali non finirà domani. Non solo. In un mondo globalizzato come il nostro, il rischio di contagio nel resto del mondo è già una realtà che alcuni Paesi stanno vivendo, come per esempio la Cina. Per scongiurare questo rischio l’Africa, uno dei pochi continenti in grado di sostenere e far registrare una crescita significativa nel 2012, deve intensificare il commercio all’interno delle sue frontiere». A parlare è Pascal Lamy, direttore generale della Wto, l’organizzazione mondiale del commercio nota per le sue ricette a favore della liberalizzazione degli scambi commerciali per lottare contro la madre di tutte le sue battaglie: il protezionismo.
In questa intervista esclusiva rilasciata al settimanale Vita e al quotidiano etiope Addis Fortune, Lamy ribadisce la necessità di «garantire la sostenibilità del sistema commerciale multilaterale, rafforzare il ruolo dei Paesi meno sviluppati presenti nella Wto e favorire l’ingresso di altri Paesi poveri nella nostra organizzazione».
Lei ha pronosticato che il 2012 sarà un anno molto difficile per il commercio mondiale. Quale impatto avrà l’economia globale al ribasso sull’Africa?
Sia la Banca mondiale che il Fondo monetario internazionale sostengono che nel 2012 la crescita economica mondiale non andrà oltre il 2,5%, una previsione ancora inferiore rispetto all’anno scorso. Ma si tratta di un anno che vedrà andamenti molto sbilanciati, fare una media non dice molto della realtà. Da un lato infatti la crescita delle economie dei Paesi sviluppati non supererà l’1,5%, mentre quella dei Paesi in via di sviluppo si attesterà attorno al 5,5%. Su questi dati si innesta un’altra regola ferrea, oltre che ovvia: quando l’economia rallenta, il commercio rallenta. Gli scambi commerciali seguono la logica dei rapporti tra domanda e offerta. Se la domanda cala, anche l’offerta cala, e quindi anche la bilancia commerciale. Viceversa, se la domanda aumenta, l’offerta cresce, con la conseguenza di intensificare gli scambi commerciali. Per quanto riguarda l’Africa, il prossimo anno non è per niente fosco, anzi. Gli indicatori economici negativi di Unione Europea e Stati Uniti hanno un impatto limitato sull’Africa. Quel che conta, è la forza con cui stanno crescendo le economie asiatiche, i cui scambi commerciali con l’Africa sono in continuo aumento. Ma il vero obiettivo per il continente è intensificare il commercio all’interno delle sue frontiere. Si tratta di una sfida fondamentale, anche perché la crisi economica mondiale è destinata a durare. Al pari dell’Europa, degli Usa e della Cina, gli scambi commerciali interni consentiranno all’economia africana di poter resistere più efficacemente agli shock esterni. Oggi l’africanizzazione del commercio in Africa ha un potenziale enorme. Il commercio intraeuropeo, intramericano e intrasiatico pesa rispettivamente per il 60, 40 e 60% sugli scambi commerciali complessivi di ognuno di questi continenti. Il commercio intrafricano invece non supera il 10%.
Passare dalla teorie ai fatti non è cosa facile. Che soluzioni concrete propone?
A oggi c’è una road map basata sui processi di integrazione regionale che l’Africa ha deciso di adottare. I Paesi africani sono convinti che sia il modo migliore per costruire le basi di uno sforzo collettivo che abbia effetti a livello continentale. Dal mio punto di vista, ogni scambio commerciale deve cominciare con i vicini di casa. Se non fai così, non puoi sviluppare rapporti commerciali efficaci con il resto del mondo. E sono certo che l’integrazione regionale è una priorità assoluta per l’Africa.
A Davos, lei ha espresso giudizi duri nei confronti dei Paesi più potenti: li ha accusati di voler affossare il sistema commerciale multilaterale privilegiando i rapporti bilaterali e regionali. Per quale motivo, secondo lei?
Sono sessant’anni che la Wto si sforza di costruire una piattaforma multilaterale in grado di facilitare gli scambi commerciali tra i Paesi. Oggi la nostra organizzazione dispone di una piattaforma, di un sistema e di regole che governano il commercio multilaterale. Purtroppo i negoziati attuali non ci consentono di aggiornare questo sistema. E questo perché prevalgono profonde divergenze politiche tra i grandi Paesi. Certo, la crisi economica non aiuta. Il sistema multilaterale non può godere di buona salute se i membri di questo sistema sono in difficoltà…
La possibilità di aderire alla Wto dipende dalla capacità di un Paese di negoziare in condizioni adeguate, e spesso i Paesi poveri non lo sono. Rafforzare le loro competenze fa parte del suo lavoro: la Wto però è stata fortemente criticata per non aver rispettato questo impegno. Che cosa risponde a queste critiche?
Proprio perché i Paesi meno sviluppati non hanno le competenze sufficienti per negoziare, la Wto ha deciso di creare un percorso di adesione più semplice rispetto ai Paesi ricchi. Abbiamo anche lanciato delle iniziative specifiche come il piano Aid for Trade, che punta a migliorare le capacità di export dei Paesi poveri attraverso il miglioramento delle infrastrutture e una migliore gestione amministrativa. Bene, se guardiamo allo storico, dal 2005 la parte degli aiuti allo sviluppo destinati a rafforzare le capacità di commercio dei Paesi poveri è aumentata del 40-50%. La mia risposta alle accuse sta in questi numeri.

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