Economia

Impresa cooperativa, la forza del collettivo per cambiare l’economia

La cooperazione fornisce condizioni organizzative e motivazionali per tessere legami, costruire ponti, curare i contesti, e a coltivare socialità, riorientando l’economia verso fini sociali al servizio del benessere e della coesione sociale. La sociologa Ota De Leonardis interviene nel dibattito lanciato Andrea Morniroli e Marisa Parmigiani su queste colonne su quale sia oggi il ruolo della cooperazione nella lotta contro le disuguaglianze

di Ota De Leonardis

La lettura del Rapporto sulla Cooperazione mi ha sollecitato a riflettere sui potenziali, oggi, della forma cooperativa, a immaginare delle possibilità, ma anche a considerare i limiti che il mercato globalizzato impone anche a questo tipo d’impresa. Su questo limite intravedo le difficoltà della sfida, comunque ineludibile, della “sostenibilità”, parametro che non possiamo limitarci ad agitare come un gagliardetto.

Tenendo a mente la storia, i motivi originari e la cultura della cooperazione, specialmente in Italia, ribadiamo anzitutto un paio di punti.

Due punti ineludibili

Primo, come ha argomentato il Rapporto, la forma cooperativa è suscettibile di fornire alcune condizioni di base per riorientare l’economia verso fini sociali: per avviare un rovesciamento di quella logica del capitalismo globale dedita all’assoggettamento della società agli imperativi economici, e per ricondurre viceversa l’economia al servizio del benessere e della coesione sociale.

Secondo, la forma cooperativa offre una sponda molto importante per contrastare la concorrenza scatenata: per re-imparare a cooperare, a costruire obiettivi comuni, a riconoscere comuni condizioni del convivere – nel mondo del lavoro come nella vita quotidiana del quartiere, paese, rione o città. Questo apprendimento sarebbe oggi più che mai indispensabile, perché la frammentazione nel sociale da un lato moltiplica solitudine, impotenza, silenzio o passività tra chi vi è impegnato – in conseguenza non da ultimo della logica prestazionale, fino all’inquietante vincolo del minutaggio – ; e dall’altro la frammentazione va smembrando le reti di supporto e di cura per le persone più fragili, per famiglie e gruppi sociali a rischio di esclusione; e con effetti disastrosi sulla coesione sociale, come è noto.
La cooperazione fornisce insomma le condizioni sia organizzative che motivazionali per mettersi invece a intraprendere insieme, a tessere legami, costruire ponti, curare i contesti, e a coltivare socialità, reciprocità e interdipendenze. “Insieme”, dico, perché questa è la vocazione della forma cooperativa, il cui principio associativo è la comune posizione di “socio”. Certo, variazioni e violazioni di questo principio non sono un’eccezione – il mercato impone le sue leggi, e anche i suoi arbitrii – e tuttavia esso ha un potenziale dirompente: basti ricordare, come fa Giancarlo Carena nel suo contributo a questo dibattito, come il diventare “soci” abbia segnato la svolta emancipativa e capacitante nella vita dei matti-scopini del manicomio di Trieste, costituitisi per l’appunto nella Cooperativa Lavoratori Uniti Franco Basaglia: la forza del collettivo.

I beni comuni da curare

Queste potenzialità incoraggiano a pensare avanti, a prendere in considerazione nuovi terreni di sviluppo per l’impresa cooperativa, rinnovandone le ragioni. Ci sono beni, dice il Rapporto, che vanno riconosciuti come beni comuni, e che pertanto vanno curati in solido. Alcuni sono virtuali ma decisivi, come un buon livello d’istruzione e di cultura, altri beni materiali, come l’acqua, l’energia, l’alimentazione, lo stato di salute. Sono beni che richiederebbero di essere trattati nella cornice di una “economia fondamentale” (foundational economy, in inglese) che ne disciplina i diritti d’impresa. La forma cooperativa si presta a favorire, come dicevamo, la cura in solido necessaria alla manutenzione e riproduzione di questi beni comuni, e si possono immaginare in questo senso opportunità di intraprendere, in forme innovative. Mi spingo a dire che sarebbe doveroso pensarci e provarci. Mi rendo conto tuttavia di un nodo cruciale: la riproducibilità di questi stessi beni impone il parametro della sostenibilità. Impone di prenderlo sul serio, muovendosi nell’orizzonte di una riconversione profonda dell’economia che tratta questi beni. Mi è difficile immaginare questo sforzo di riconversione in ambiti come l’energia o l’agricoltura, oggi particolarmente insostenibili e però anche centrali per la sussistenza umana. In proposito non posso che formulare, rivolto al mondo cooperativo, un auspicio e un invito.

Chi è

Ota De Leonardis, ora in pensione, è stata professore di Sociologia presso l’Università di Milano Bicocca, direttore di Rassegna Italiana di Sociologia, presidente del Consiglio Scientifico dell’Institut d’Etudes Avancées di Nantes. I suoi ambiti di studio concernono le istituzioni, le politiche pubbliche con riguardo in particolare al welfare, le trasformazioni della sfera pubblica, della cittadinanza e della democrazia. Tra le sue pubblicazioni recenti: (a cura di, con altri) Democracy and Capabilities for Voice. Welfare, Work and Public Deliberation in Europe, Brussels: Peter Lang, 2012; (a cura di, con F. Neresini) “Il potere dei grandi numeri”, special issue, RIS, 3-4, 2015; “Il Mercato totale. Su diritto e democrazia”, Postfazione, Alain Supiot, La sovranità del limite, Milano: Mimesis 2021; (a cura di, con altri) Covid-19. Tour du monde, Paris: Editions Manucius, 2021.

In apertura photo by Nick Fewings on Unsplash

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