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E se il prof più bravo d’Italia insegnasse in carcere?

Ecco i dieci migliori prof d'Italia, finalisti alla prima edizione dell'Italia Teacher Prize. Settimana prossima verranno rivelati i cinque vincitori. Eraldo Affinati è nella commissione che ha selezionato i finalisti: «In Italia abbiamo tanti buoni maestri, la nostra classe docenti è mediamente buona, solo che solo le buone pratiche vanno evidenziate, così da stimolare nuove energie propostive»

di Sara De Carli

C’è un’insegnante che l’alternanza scuola lavoro (ante litteram) ai suoi ragazzi la fa fare sin dal 1984, nel porto di Livorno. Si chiama Maria Lina Saba, insegna discipline economico-aziendali al ITCG Enrico Fermi di Pontedera e le imprese che collaborando con la sua scuola sono ormai 300. Con i soldi del premio farebbe «un laboratorio multimediale per la realizzazione di video e un laboratorio dotato di una stampante 3D utile per gli studenti che si cimentano con percorsi di imprenditorialità che prevedono la realizzazione dei prototipi dei prodotti ideati». Nei laboratori sarebbero coinvolti anche i genitori che hanno competenze in materia, disposti a dedicare del tempo alla scuola dei propri figli. Un altro, Antonio Silvagni, è cieco: ha perso la vista in pochi giorni, nel 1990, fra gli scritti e gli orali del concorso a cattedra. Insegna materie letterarie e latino al IIS Leonardo Da Vinci di Arzignano ed p un esperto di multimedialità nella didattica: «Colgo la stima degli studenti, dei genitori e di molti colleghi per attività che svolgo convivendo con naturalezza con la mia fragilità», si legge nella sua scheda. Saba e Silvagni sono due dei dieci finalisti dell’Italian Teacher Prize, i cui nomi sono stati rivelato oggi. Sono stati scelti fra 11mila candidati e alla fine della prossima settimana fra loro saranno proclamati i cinque vincitori del Premio.

L’Italian Teacher Prize è alla sua prima edizione: lo lanciò lo scorso maggio la ministra Stefania Giannini, sul modello del Global Teacher Prize. «Non è una gara per miglior prof, ma un grande racconto della comunità dei nostri docenti», spiegò la ministra: «con il Premio vogliamo raccontare storie di insegnanti che fanno la differenza nelle nostre scuole». Prova ne è il fatto che la vincita non va all’insegnante (sono 50.000 euro per il primo classifgicato e 30.000 euro ciascuno per gli altri quattro) ma alla scuola del vincitore, per la realizzazione di attività e progetti.

Lo scrittore Eraldo Affinati è nella commissione che ha scelto i dieci finalisti: non si sbilancia sui nomi ma afferma che «gli insegnanti italiani hanno ottime capacità, nonostante un’immagine sociale non sempre prestigiosa. Abbiamo tanti buoni maestri, la nostra è una classe docenti mediamente buona, le capacità e le eccellenze degli insegnanti vanno evidenziate: in questo senso il Premio è una buona iniziativa, per mettere in evidenza e le tante buone pratiche e anche per stimolare nella scuola italiana nuove energie propostive. È importante infatti sottolineare che i premi economici serviranno a finanziare altri progetti nelle scuola, non vanno alle persone, servono per esaltare le capacità dei docenti italiani».

Un altro elemento che Affinati evidenzia è il fatto che nella top10, accanto a insegnanti innovativi, tecnologici, aperti al territorio, fundraiser, quelli che hanno fondato concorsi e premi (Marco Ferrari, ad esempio, che insegna Filosofia e Storia al Liceo Malpighi di Bologna, oltre ad aver curato la prima edizione del TedXYouth la prossima settimana radunerà 900 studenti per parlare di filosofia e tecnologia, nelle Romanae Disputationes, il concorso di filosofia che si è inventato) ci sono anche docenti che insegnano in luoghi “diversi” dalla scuola tradizionale: il carcere e l’ospedale. «Sono esempi virtuosi e anche coraggiosi. È importante che ci siano, perché ci ricordano che è possibile uscire dalla scuola tradizionale, che le esperienze di conoscenza possono essere portate anche altrove, al di fuori dal luogo canonico e chiuso delle aule e della scuola. La scuola può andare ovunque, anche in altri luoghi, questo è importantissimo».

Sono esempi virtuosi e anche coraggiosi. È importante che ci siano, perché ci ricordano che è possibile uscire dalla scuola tradizionale, che le esperienze di conoscenza possono essere portate anche altrove, al di fuori dal luogo canonico e chiuso delle aule e della scuola. La scuola può andare ovunque, anche in altri luoghi, questo è importantissimo

Eraldo Affinati

Forse è per loro che facciamo il tifo. La prima, in ordine alfabetico, è Annamaria Berenzi, prof di matematica al IIS Castelli di Brescia e lavora per scelta nei reparti degli Spedali Civili di Brescia, con ragazzi ricoverati soprattutto in oncoematologia pediatrica e in neuropsichiatria, per disturbi alimentari o psichiatrici. La sezione ospedaliera della scuola, un istituto superiore, esiste dal 2002 e segue circa 150 alunni l’anno e al Premio la prof Berenzi è stata candidata proprio da una sua ex alunna: la scuola diventa parte integrante della terapia, verso la guarigione (qui un video di presentazione). La seconda è Daniela Ferrarello, di ruolo all’istituto alberghiero Karol Wojtyla di Catania: lei insegna matematica in un istituto di alta sicurezza, il Bicocca e il premio lo utilizzerebbe proprio per attrezzare le scuole carcerarie del materiale necessario, spesso carente. Da molti anni più di settanta detenuti nel carcere Bicocca frequentano i corsi dell’alberghiero Karol Wojtyla e diverse persone, grazie a questa opportunità, una volta scontata la pena si sono inseriti positivamente nel mondo del lavoro. Infine la prof Consolata Maria Franco, che insegna Italiano, Educazione civica, Storia e Geografia all'Istituto Penale Minorile di Nisida. Ha sempre lavorato qui, sperimentando diversi percorsi linguistici e di educazione alla legalità, avviando progetti innovativi: nel stata nominata Cavaliere al merito della Repubblica dal Presidente Napolitano nel 2011. «A Nisida, ho imparato a insegnare, sperimentando sulla mia pelle tutte le difficoltà di avviare curiosità e interessi culturali nei ragazzi dalle pesanti esperienze di vita, che dalla scuola si sono, o sono stati, allontanati», ha detto a Repubblica. «Ho sempre provato a far maturare, negli allievi, la consapevolezza che tra l'urlo e il silenzio, tra il gesto violento e il nulla, è sempre possibile la parola: quella detta e quella pensata. E che il finale della loro storia non è già dato, ma può essere, appunto, riscritto, con nuove parole».

Foto J. Owens/Unsplas


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