Solidarietà & Volontariato

Johnny Dotti: «La comunità viene prima della legge»

«Il welfare è stato spostato tutto sulla tecnica, sulle procedure, sui dispositivi tecnici, organizzativi. Così facendo, non è più quello spazio dove ci possiamo prendere vicendevolmente cura di noi». Continua la nostra riflessione sulla società civile

di Marco Dotti

Che cosa intendiamo, oggi, in tempi di disintermediazioni repentine e radicali, con l’espressione “società civile”? Dopo l'intervento di Mauro Magatti e Flaviano Zandonai, prosegue il nostro dibattito con l'intervento di Johnny Dotti è marito, padre, pedagogista, imprenditore sociale. Monaco novizio e fondatore della Rete CGM.

Qual è il punto da cui possiamo partire per riflettere sul tema "società civile"?
Partirei dal fatto che non esiste società libera se non esiste comunità e, quindi, non esiste società civile senza una comunità civile. Ma non esiste comunità se non c'è un'azione capace di un linguaggio autonomo e di un'aziona autonoma. La comunità viene prima della legge. Se non abbiamo una comunità prima della legge, la legge diventa il cavallo di Troia per corrompere da dentro quel legame spirituale e quell'obbligazione morale che crea legami fra gli uomini. La tecnocrazia non è in grado di intervenire sull'obbligazione morale, sulla parola, sull'affetto che ci lega, mentre è assolutamente capace di intervenire sul mondo astratto dell'istituzione societaria. Il punto vero è che stiamo cancellando qualsiasi traccia di comunità, con problemi enormi. Alla comunità non è lasciata "parola" ma viene derubricata a dialetto, non viene lasciata azione ma tutto è precostituito dal punto di vista legislativo. Tutto l'immaginario della comunità viene colonizzato dall'istituzione.

Mauro Magatti parlava di due poli: quello dell'esperienza comunitaria e quello della regola societaria…
Concordo con questa analisi, ma dobbiamo fare attenzione: il polo dell'esperienza comunitaria è oggi tutto rubricato in termini di "purismo", "i cattivi", etc. Non possiamo lasciare la comunità solo alle sue declinazioni maledette. L'uomo è corpo, è spirito ed è comunità. Non è società.

Quindi, anziché di società civile potremmo parlare di una comunità civile o, meglio, prendendo a prestito un'intuizione di Ivan illich: comunità conviviale.
Era la grande idea di Luigi Sturzo. Una grande idea che, in parte, è entrata nella nostra Costituzione ma col tempo si è incastrata nel meccanismo societario. Una comunità non può attendere che ci sia una legge per autoregolarsi.

Eppure, qualcosa resiste…
In questi anni il nostro Paese ha galleggiato sulla crisi perché il "popolo" – uso un'espressione che comunque non mi piace – è stato capace di esperienza istituente. Le Bcc, le Banche popolari, le cooperative di consumo, le federazioni e gli stessi comuni, che cosa sono se non questa capacità di sentirsi corpo con altri? Se l'Italia perde questa ricchezza, perde tutto e il meccanismo diventa in sé oppressivo. Mi piace la distinzione di Raimon Panikkar fra popolo, nazione e Stato: non sono tre cose separate, ma sono tre cose distinte che hanno bisogno di una loro capacità endogena di movimento, di potere, di costruzione, di linguaggio.

Altrimenti?
Oggi anche fondere popolo, nazione e Stato è un'illusione. C'è un potere più grande, la tecnocrazia.

In ogni caso, potremmo dire che la comunità civile è uno spazio di esperienza…
Un'esperienza di pluralità concreta, non mediata da enti astratti. La mediazione viene dopo e prende senso solo perché viene dopo. Pensiamo al welfare: è stato spostato tutto sulla tecnica, sulle procedure, sui dispositivi tecnici, organizzativi. Così facendo, il welfare non è quello spazio dove ci possiamo prendere vicendevolmente cura di noi. Uno spazio legato all'obbligazione morale che ci lega. Dentro la comunità dobbiamo giocare il rischio della nostra esperienza.


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