Solidarietà & Volontariato

Non ci sono più i genitori di una volta

«Organizzare l'educazione significa mettere al centro non ciò che penso io o le mie idee di genitore, ma i bisogni evolutivi del bambino. Questa è la rivoluzione, niente affatto scontata», afferma Paolo Ragusa. Nelle famiglie di oggi, centrate sul "cosa" e sul "come" invece che sul "chi", c'è la possibilità di riuscirci. «I figli sono sempre più lontani dai nostri desideri di genitori, ma forse c’è un’opportunità maggiore che vadano verso i loro desideri»

di Sara De Carli

«Non ci sono più i genitori di una volta». Un’affermazione secca, che può suonare come la presa d’atto di un dato di fatto, oppure aprire a una vena di nostalgia o al contrario a un liberatorio “per fortuna!”. Sottotitolo: “L’aiuto alle nuove genitorialità: mamme o papà soli, famiglie allargate, genitori con nazionalità diverse, famiglie arcobaleno”. È questo il tema scelto per una conversazione fra Susanna Mantovani, già docente di Pedagogia generale e sociale all’Università degli Studi Milano Bicocca e Paolo Ragusa, vicepresidente e responsabile delle attività formative del Centro PsicoPedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti (CPP). L’appuntamento è per il 13 aprile a Piacenza, nell’ambito del convegno annuale del CPP, “Dalla parte dei genitori”. Ne parliamo con Paolo Ragusa.

Partiamo dal titolo, che incuriosisce molto…
Non c’è nostalgia. Il titolo vuole mettere in evidenza il fatto che siamo in un’epoca di grandi opportunità: il nostro interesse è proprio in queste opportunità. L’evolversi della genitorialità e della famiglia oggi permette a ciascuna persona di trovare il suo spazio: un tempo qualcuno poteva dire “io non sono fatto per la famiglia”, “io non sono fatta per essere mamma” o “per essere papà”, mentre oggi questo è meno giustificabile. Vediamo tutto ciò come una grande opportunità, anche se ovviamente ci sono i rischi di derive.

Però c’è nel confronto esplicito fra stili educativi diversi c’è anche una pressione sociale che prima non c’era sull’essere un buon genitore.
Sentirsi addosso la pressione rispetto a come gli altri vorrebbero che facessi il genitore (che poi vale anche per come gli altri vorrebbero che facessi il marito, la moglie, il lavoratore…) è nefasto. Anche qui però guardiamo all’aspetto interessante: l’esistenza di un’attenzione. Oggi c’è una domanda sociale di genitorialità che va raccolta, c’è una domanda esplicita di organizzazione dell’educazione dei figli, un dire “abbiamo bisogno di qualcuno che ci aiuti”. Tutta questa domanda prima non c’era o era implicita, oggi invece è esplicita anche se talvolta non viene posta bene.

La fragilità educativa non è una cosa nuova: la novità di oggi è che essa è diventata sistema e anzi è propagandata come forma educativa evoluta, perché crea vicinanza tra genitori e figli. Questo sentire però deve trovare una misura e un’organizzazione: se non si trova la misura, diventa un eccesso di investimento o un eccesso di vicinanza o qualcosa per cui il genitore si sostituisce al figlio. Così come nei nostri nonni la fragilità educativa diventava, al contrario, eccesso di distanza o autoritarismo

Paolo Ragusa

Cosa intende?
Diciamo che c’è un paradosso. Da una parte c'è molto interesse e attenzione nei confronti dei bambini e dell’infanzia – i diritti dei bambini, il tema della loro felicità e di una buona infanzia – ma spesso c’è anche un eccesso di eccentricità degli adulti rispetto ai bambini. Penso in particolare al fatto che l’adulto, nell’essere genitore, cerca di realizzare suoi aspetti progettuali, di trovare un posto nel mondo. Queste sono derive. Ad esempio cercare nell’essere padre qualcosa che riscatti la mia infanzia. Un padre incontrato poche settimane fa mi raccontava di come nella loro famiglia, in accordo, lei lavori e lui abbia lasciato il lavoro per occuparsi del figlio. Poi però, approfondendo il come lui interpreta la funzione paterna, è emerso che questa non è una semplice scelta di organizzazione familiare, ma un modo per riscattare la sua infanzia, per recuperare quelle opportunità che a lui erano mancate con suo padre. Questo rischia di essere un pasticcio. Come pure è un pasticcio il padre che, perché in casa, fa la madre: occuparsi dei figli non significa fare la madre.

Un aspetto del «non ci sono più i genitori di una volta» è anche la fragilità dei giovani genitori di oggi, evidenziata da Daniele Novara.
Questa fragilità genitoriale è solo in parte collegata alla dimensione generazionale. Oggi in realtà tutti i genitori, che abbiano 25 o 50 anni, sono potenzialmente esposti alla fragilità. La fragilità riguarda tutti coloro che si trovano a educare oggi, perché c’è una globalizzazione di un "sentire", tale per cui non c’è più la distanza di un tempo tra adulto e bambino. Questo fatto deve trovare una nuova forma, una misura e un’organizzazione: se non si trova la misura, questo diventa un eccesso di investimento o un eccesso di vicinanza o qualcosa per cui il genitore si sostituisce al figlio. Se ci pensa, i nostri nonni non erano meno fragili da un punto di vista educativo, ma la loro fragilità prendeva derive diverse: il rigore, l’eccesso di distanza, l’autoritarismo… Quel che voglio dire è che la fragilità educativa non è una cosa nuova: la novità di oggi è che essa non è più occasionale ma è diventata sistema e anzi è propagandata come forma educativa evoluta, perché crea vicinanza tra genitori e figli. Crea vicinanza ma produce criticità. Si tratta quindi di organizzare e dare forma all’educazione.

E cosa significa organizzazione nell’educazione?
Significa mettere al centro non ciò che penso io o le mie idee di genitore, ma i bisogni evolutivi del bambino. Questa è la rivoluzione, niente affatto scontata. Cosa serve a un figlio a 2 anni, a 6 anni, a 13 anni? Partire da lì. Sono bisogni complessi e non facili, ma solo così possiamo organizzare l’educazione. A 3 anni è inutile dare dieci regole, il bambino a quell’età ha una forma di comprensione della realtà binaria, bianco/nero, sì/no… Se comincio a spiegare, a dare regole che più che regole sono prediche, a farmi problemi sulla frustrazione del bambino davanti a un no…. entro in un vortice di fragilità. Così l’adolescente: se non realizzo che per separarsi la conflittualità è necessaria, se da genitore mi offendo perché mio figlio adolescente mi volta le spalle… le ragioni emotive del genitore prevalgono sui bisogni evolutivi dell’adolescente. Ad esempio il conflitto o la regolazione sono criteri per organizzare l’educazione, come anche la socialità: che un bambino debba poter stare con altri è importante, mentre oggi la tendenza è a dire “mettiamolo al riparo da tutto e da tutti” …

Organizzazione nell’educazione significa mettere al centro non ciò che penso io o le mie idee di genitore, ma i bisogni evolutivi del bambino. Questa è la rivoluzione, niente affatto scontata. Cosa serve a un figlio a 2 anni, a 6 anni, a 13 anni? Partire da lì.

Paolo Ragusa

Quindi alla base dell’organizzazione educativa c’è la conoscenza dei bisogni evolutivi…
La base è informativa. Le scuole genitori in questo senso aiutano molto, ma anche lo scambio e il confronto: occorre costruire una comunità di genitori che si interroga. Poi però occorre “saperci fare”, non basta sapere: occorre sapere cosa scegliere in questo preciso momento. Questo è difficile, perché quando si deve decidere e scegliere, molti genitori oggi vanno in blocco. E se poi? Intanto fa’ quello che va fatto, e se poi succede che… ci ragioniamo. La fragilità della capacità genitoriale ha generato anche l’idea che pure il bambino sia fragilissimo e questo spesso non ci fa fare la mossa giusta. Ma non è così, l’adolescente è perfettamente in grado di assorbire la conflittualità con i genitori e anzi la cerca e a creargli problemi è un genitore troppo accondiscendente. Così come un bambino è rassicurato da un genitore in cui trova un punto fermo, è l’imprevedibilità genitoriale ad essere angosciante per lui.

Veniamo alle diverse composizioni familiari a cui accennate fin dal titolo: mamme o papà soli, famiglie allargate, genitori con nazionalità diverse, famiglie arcobaleno.
Sono cose vecchie come la famiglia stessa, ma che erano implicite. Da un lato oggi si può essere coppia ma non famiglia e si può essere famiglia senza essere coppia: l’innesco della famiglia non è più solo quello della coppia. Dall’altro tante famiglie sono poliaggregate, policentriche, dove è difficile trovare il nucleo originario, dal punto di vista affettivo… La famiglia naturale è fondata sul “chi”, mentre oggi la pluralità degli aggregati familiari ci permette di mettere l’accento non tanto sul "chi" costruisce ma sul "cosa" costruiamo e sul "come" lo costruiamo. Il cosa, il senso e il come, l’organizzazione, non il chi dà legittimazione alla famiglia. Questo è interessante.

Qual è l’opportunità che lei vede?
Che qualcosa che prima era “fuori” ora è incluso. L’estrema inclusività dell’esperienza famigliare, tale per cui oggi possiamo molto più di ieri immaginare che il “figlio degenere” sta dentro la famiglia non viene più messo fuori. È esperienza di maggiore integrazione, più larga. Qual è l’opportunità? La maggior dialettica tra appartenenza e separazione: i nostri figli sono sempre più lontani dai nostri desideri di genitori, ma forse c’è un’opportunità maggiore che vadano verso i loro desideri. E poi in un’epoca di narcisismo imperante, la famiglia ti chiede di stare nella mancanza: per stare dentro, devi accettare di perdere qualcosa, non puoi avere tutto e in questo senso l’esperienza della famiglia dal punto di vista sociale e di sviluppo delle persone è una grossissima occasione.

Il convegno "Dalla parte dei genitori" si svolgerà a Piacenza sabato 13 aprile, dalle 10 alle 17, nel Teatro Politeama (via San Siro 7). Qui il programma dettagliato. La quota di iscrizione, per il lettori di VITA, è di 50 euro (per info e iscrizioni: convegno@cppp.it – 331.6190707 – cppp.it). Relatori durante la giornata saranno Daniele Novara, Silvia Vegetti Finzi, Alberto Pellai, Michele Zappella, Susanna Mantovani, Paolo Ragusa, Bruno Tognolini, Marta Versiglia, Paola Cosolo Marangon, Lorella Boccalini, Emanuela, Cusimano, Elisa Mendola.

Photo by Tina Bo on Unsplash


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