Politica & Istituzioni

Zamagni: estirpare burocrazia e rendite (e altre 3 priorità per l’Italia)

Dopo il via libera di Bruxelles al piano di aiuti, la domanda cruciale è: come impegnare le risorse? L’intervento dell’economista e presidente della Pontificia Accademia delle Scienze sociali: «Ma se vogliamo cambiare il Paese, occorre che cambi anche il modo di concepire il Terzo settore»

di Redazione

E adesso che ci facciamo con questi soldi? È questa la domanda che da qualche ora aleggia sempre più impellente nelle segrete del Palazzo. E di poche settimana fa la dichiarazione del ministro della Cultura Dario Franceschini e tessitore dell’alleanza Pd-Movimento 5 Stelle che candidamente ammetteva l’assenza di un piano operativo del Governo. Il disco verde di Bruxelles al Recovery Fund chiude una partita (frugali vs spendaccioni), ma ne apre subito un’altra. “Con 209 miliardi faremo ripartire l’Italia”, ha annunciato trionfate Giuseppe Conte nella conferenza stampa via Facebook di questa mattina. Che strada prendere dunque? Abbiamo girato la questione all’economista dell’università di Bologna e presidente della Pontificia Accademia delle Scienze sociali Stefano Zamagni, che insieme a Leonardo Becchetti, Luigino Bruni, Enrico Giovannini, Giovanna Melandri, Alessandra Smerilli e Marcello Esposito firma i contributi del servizio di copertina del numero di Vita in distribuzione.

Professore i soldi sono arrivati e adesso?
Come la storia italiana insegna è molto più facile ottenere risorse finanziare che non saperle spendere bene. Basta partire dal secondo dopo guerra, la nostra storia di 80 anni è piena di esempi in cui le risorse o sono state sprecate o addirittura non sono state spese. Oggi ci troviamo in questa situazione: le risorse arriveranno, ma il punto è come spenderle. Il primo nodo da affrontare ha a che vedere con la strategia di uscita che si vuole adottare, se quella della resilienza trasformativa oppure la strategia dell’alluvione. I conservatori preferiscono questa seconda che è basata sulla metafora del fiume che esonda. Si attende che l’acqua rientri nell’alveo, dopo di che le squadre di operai aggiustano le sponde del fiume e l’acqua continua a scorrere come prima: business as usual. In Italia sta prevalendo questo approccio. L’altra ipotesi pretende di considerare questo passaggio storico come occasione per trasformare blocchi interi del nostro sistema Paese. Io sono per questa seconda strategia come anche dovrebbe esserlo il Terzo settore. Anche se sappiamo che i conservatori che vivono di assistenzialismo e ai quali interessa più un uovo oggi che la gallina domani sono un osso duro.

Se optiamo per la resilienza trasformativa quali sono dunque le priorità?
Gliene indico cinque:

1. Estirpare il sistema burocratico

Bisogna che il sistema della burocratizzazione venga estirpato. Si badi bene: estirpato. Non riformato come si sta dicendo. Un po’ di burocrazia è necessaria, ma l’elefantiasi non può più essere tollerata. Perché quella è un cancro che ci sta divorando le risorse. Ma per fare questo bisogna avere il coraggio di dirlo e nessuno lo dice. C’è da chiedersi qual è la causa della burocratizzazione? La risposta è il yield seeking, la ricerca della rendita del sistema dei partiti ecco. Sono loro, destra, sinistra, centroidestra e centrosinistra, tutti che hanno bisogno della burocratizzazione per ottenere quelle risorse che diversamente non otterrebbero. Sabino Cassese che è grande esperto del tema ha messo in evidenza esattamente questo link. Tutti si lamentano della burocratizzazione, però nessuno ha il coraggio di dire che la vera ricetta non consiste nel ridurre il numero delle leggi cosa che va pur fatta, o nel semplificare cosa che pur va fatta, ma nel cambiare il modo di operare del sistema politico. Ovvero bisogna andare verso la democrazia deliberativa. Non si farà. Ma almeno bisogna che ce lo diciamo. Che il cittadino sia informato e consapevole. Visto che a parole e sulla carta sono tutti favorevoli. .

2. Un piano per l’imprenditorialità

Serve un piano per l’imprenditorialità. Che è cosa ben diversa e non va confusa con la managerialità. Non difettiamo di manager oggi, perché negli ultimi trent’anni l’Italia ha fatto passi da gigante. Le nostre business school, le nostre scuole di manager sono di livello elevato. Mancano però gli imprenditori. Il tasso di imprenditorialità non è basso, ma è in calo costante. Il numero delle imprese che muoiono è superiore a quelle che nascono. Non solo: In Italia operano 15.600 imprese di media dimensione straniere, noi non ce ne accorgiamo, ma sono straniere. Se un domani questo stock di imprese decidesse di lasciare il Paese, saremmo ancor più nei guai. Come creare la figura dell’imprenditore? All’imprenditore servono ragionevolezza e visione. Non serve la razionalità tipica dei manager, che apprendono nelle business school. La differenza è la stessa che c’è tra un problema di scelta e un problema di decisione. Il manager sceglie l’imprenditore decide. Il problema di scelta è tale quando il soggetto deve selezionare tra un certo numero di opzioni di cui conosce le caratteristiche: al ristorante il cameriere mi porta il menù e io scelgo il piatto fra i tanti che conosco. Una decisione invece si ha quando il soggetto non conosce tutti i termini, ma deve comunque prendere una strada. Decidere in latino significa tagliare, tagliare la testa di Medusa. Per scegliere basta la razionalità, cioè applicare il calcolo razionale rispetto alle alternative in gioco. Per decidere la razionalità non serve a niente, ci vuole saggezza. E la saggezza si chiama ragionevolezza. I capitani di ventura, i manager salvano l’impresa e dopo dieci anni vanno dall’altra parte, ma l’imprenditore no, perché l’imprenditore si identifica con la sua impresa. Le business school servono e meno male che ne abbiamo di ottime, mancano le scuole di imprenditorialità dove non si insegnano le mappe, ma le bussole. Una ripresa dell’imprenditorialità non può fare a meno del Terzo settore, ma non perché si chiama Terzo settore. Ma perchè chi opera nel Terzo settore magari non sa nulla di tecnica e di analisi, ma spesso ha una visione. La proposta operativa è semplice: far partire entro un anno cinque corsi di laurea specialistica in imprenditorialità in altrettante università.

3. Un sistema fiscale che favorisca impresa e lavoro a scapito delle rendite
Bisogna cambiare radicalmente la ratio del sistema fiscale. La filosofia deve essere la seguente: le tasse devono pagarle i soggetti improduttivi o poco produttivi. Oggi in Italia succede esattamente il contrario? A pagare di più sono i soggetti produttivi, cioè lavoro e impresa. Mentre pagano troppo poche tasse i percettori di rendita fondiaria, finanziaria, immobiliare ecc. Il principio base deve essere che il contributo maggiore deve venire da coloro i quali vivono sulle spalle degli altri, ovvero dagli improduttivi. Sembra una rivoluzione, ma in realtà è una questione di buon senso.

4. No alternanza, ma convergenza scuola-lavoro
Non serve riformare, ma bisogna trasformare il sistema scolastico e universitario e della ricerca che oggi è ancora di stampo taylorista. Scuola e università sono state modellate a partire dalla riforma Gentile di epoca fascista sullo stampo della fabbrica taylorista. La logica è la medesima. Come nella fabbrica novecentesca il capo ha sempre ragione anche quando dice sciocchezze e tu devi obbedire, la stessa cosa accade nella scuola: il professore ha sempre ragione anche se è un imbecille e lo studente deve ripetere le imbecillità, altrimenti viene bocciato. Al contrario la scuola e l’università devono tornare ad essere una comunità, luoghi di educazione. Penso alla comunità educante, mentre noi abbiamo ridotto la scuola a luogo di istruzione. Ora per l’istruzione bastano le riforme, bastano i computer, basta quella a distanza. Nell’educazione invece devi stabilire un rapporto intersoggettivo tra docente e studente e tra studenti fra loro. Nel concreto significa che il ministero deve smetterla di imporre dall’alto i cosiddetti programmi per cui tutti sono obbligati a ripetere quegli argomenti decisi un comitato nazionale più o meno competente. Questo è il punto. Negli Usa si sta andando in questa direzione. Il testo di riferimento è “The new education” opera di una bravissima professoressa: Cathy Davidson; è molto interessante, pieno di esempi concreti. Fra cui quello della flipped classroom, la classe rovesciata, di cui ci sono le primissime esperienze anche in Italia. Il docente il giorno prima delle sue lezioni manda via mail agli studenti la sintesi di quello che andrà a trattare, gli studenti se lo leggono la sera prima e quando arrivano in classe il prof non deve recitare la solita lezione ndalla cattedra. Si mette in cerchio con gli studenti e insieme a loro ripercorre la lezione, rispondendo alle domando, affrontando dubbi e ampliando la ricerca. I risultati sono ottimi, gli studenti in questo modo imparano a cooperare tra di loro e diventano alleati. Nel modello taylorista attuale invece gli studenti competono tra di loro e ognuno è geloso dell’altro. Per realizzare questo obiettivo occorre mettere in campo una parola chiave: conazione, in inglese conation. È una crasi: conoscenza e azione. La parola venne coniata da Aristotele. Significa che la conoscenza deve essere messa al servizio dell’azione e l’azione non può essere realizzata senza la conoscenza. Venendo al concreto: occorre accantonare la idiozia dell’alternanza scuola lavoro. Noi dobbiamo parlare di convergenza scuola-lavoro. La scuola e il lavoro devono convergere, non devono essere in alternativa. Sembra semplice, ma dietro a questa affermazione c’è una rivoluzione, che ha le fondamenta nel ragionamento di poc’anzi.

5. Un’alleanza Nord-Sud a partire del sociale
Bisogna seriamente prendere il toro per le corna e abbattere il crescente dualismo non solo economico, ma sociale e civile tra Nord e Sud. Dopo il Covid la contrapposizione si è ulteriormente inasprita. Il Pil dice troppo poco. Il dualismo è sociale e soprattutto civile. Allora bisogna anche a questo riguardo utilizzare le risorse che arriveranno in modo efficiente. Quando in Parlamento nel 1953 venne istituita la Cassa per il Mezzogiorno l’intervento venne fatto dall’onorevole Pasquale Saraceno. La tesi era: noi dobbiamo creare la Cassa per il Mezzogiorno perché i nostri concittadini del Sud sono incapaci di utilizzare le risorse per dare vita a imprese e industrie. Con la Cassa si trasferirono i soldi del Nord al Sud, ma il management rimase nelle mani del Nord. In quell’occasione prese la parola Giorgio Amendola del partito comunista che era di Napoli e disse: «Onorevoli questo sarà la fine del Mezzogiorno, perché questo vuol dire paternalismo di Stato, perché se voi volete aiutarci, voi del Nord, ci dovete consentire di farci le ossa, come imprenditori, magari anche sbagliando». Questo richiamo è importante perché vuol dire che dobbiamo fare il contrario di quello che è stato fatto allora. Portare la Fiat a Melfi o a Termini Imerese non ha funzionato e non funzionerà. È paternalismo di Stato. L’alternativa? Creare le condizioni affinché al Sud si crei una classe dirigente industriale che sappia coniugare l’impresa con il contesto sociale. Altrimenti non se ne esce. E in questo senso ancora una volta il ruolo del Terzo settore diventa cruciale anche nell’ottica di cooperazione Nord-Sud.

E qui torniamo a una questione cruciale: quale la funzione sociale degli enti intermedi, in particolare in una fase come quella che stiamo vivendo?
Una volta per tutte il Terzo settore deve fare una scelta e smarcarsi da una concezione additivista che ancora lo pervade. Ovvero una concezione che vede il Terzo settore come soggetto aggiuntivo, di cui si può fare a meno. La concezione giusta è quella emergentista. Una volta entrati in campo gli Ets modificano le relazioni anche con e negli altri settori. Migliorando sia la pubblica amministrazione sia il privato for profit. Solo questa concezione permette di entrare in una prospettiva realmente diversa. Ecco allora in conclusione che se noi vogliamo dare concretamente ali a questo progetto trasformazionale di cui abbiamo parlato e di cui ho indicato cinque proposte specifiche e concretissime, bisogna che contestualmente si realizzi una metanoia, che in greco significa trasformazione di mente, sul modo di concepire il Terzo settore.


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA