Per l'Unesco, la cultura è «un bisogno vitale in tempo di crisi, una fonte di resilienza»: eppure le istituzioni italiane sembrano trattarla alla stregua di un settore da sussidiare, più che una risorsa di senso a cui attingere in un momento critico per il Paese
Cultura: «un bisogno vitale in tempo di crisi», un «bene comune essenziale, fonte di resilienza».
Parole più che mai attuali quelle con cui, nel marzo scorso, Ernesto Ottone, direttore generale aggiunto per la cultura dell'Unesco, poneva il tema: la cultura è un bene essenziale o sacrificabile, un bene comune o un bene di mero consumo? Un capitale relazionale o un semplice prodotto?
Le istituzioni - non solo quelle italiane, in verità - sembrano trattarla alla stregua di un settore da sussidiare più che da sostenere in un momento di necessaria evoluzione e passaggio.
Proprio il 29 ottobre, mentre Castex faceva le sue precisazioni, l'Economist segnalava il problema: «il Covid-19 sta spingendo le arti tra le braccia dei governi».
Se gli aiuti di Stato sembrano necessari a un settore che genera lavoro, occupazione, economie, la reazione alla "seconda ondata" della pandemia ha mostrato ancora una volta che la cultura è più che un ambito merceologico: è una riserva di direzione e di senso, un fine che ha bisogno di mezzi. Ma non si esaurisce in essi.. Eppure, i primi a non accorgersene sembrano molti "operatori" di quel settore che, invocando tavoli e task force si dimenticano proprio di porre la questione in quei termini.
Noi ci abbiamo provato in due incontri, giovedì e venerdì scorso, e replicheremo giovedì prossimo alle 18,30.
Il Covid-19, rimarca Ottone, ha «evidenziato chiaramente il bisogno di cultura per le comunità. Quando miliardi di persone sono fisicamente separate l'una dall'altra, è la cultura che ci unisce, è il legame che ci unisce e riduce la distanza che ci separa».
Ma mentre sempre più persone cercano nella "cultura" risorse e chiavi di lettura che aiutino a contestualizzare la crisi, sempre meno persone sono in grado di accedere a quelle risorse. Conseguenza dei lockdown, ma anche di una situazione di disuguaglianza e asimmetria che si è stratificata negli anni e, oggi, al netto della retorica sulla digitalizzazione rischia di diventare esplosiva.
Secondo l'ITU, l'Unione Internazionale delle Telecomunicazioni delle Nazioni Unite, l'86% della popolazione dei Paesi avanzati utilizza internet, contro il 47% della popolazione dei Paesi in via di sviluppo. Un gap interno ed esterno che impedisce oggi più che mai l'accesso a risorse simboliche e informative vitali.
In Italia, prima della pandemia, l'Istat calcolava il 25% di famiglie fuori da ogni connessione digitale, con un divario che cresce da Nord a Sud e da città a periferie. In queste condizioni, l'idea di "digitalizzare" sic et simpliciter la cultura non basta e, forse, non serve nemmeno.
Il divario digitale sta crescendo anche nei Paesi avanzati. Rischia, ora, di crescere anche quello culturale: il serpente, infatti, si morde la coda perché senza una accesso generalizzato alle risorse culturali, in un contesto solo a parole "convergente" e aperto il divario produrrà negli anni a venire feedback negativi che innescheranno altri gap sociali, economici e generazionali a quel punto incolmabili. Non possiamo permettercelo. Per questo abbiamo bisogno di cultura. E non abbiamo bisogno che i nostri artisti - come invece auspicava il Presidente del Consiglio - ci facciano «dirvertire». Abbiamo bisogno che i nostri artisti ci facciano pensare. La cultura serve a questo. Altrimenti, basta cambiarle codice ateco.