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Economia & Impresa sociale 

Beni confiscati, 25 anni dopo: non diamola vinta alla mafia

Il 7 marzo 1996 veniva approvata la legge 109 promossa da Libera. Con i contributi di Carlo Borgomeo, don Luigi Ciotti, Nando Dalla Chiesa, Sebastiano Ardita, Tina Martinez Montinaro, Ugo Bressanello e del capo dell'Agenzia nazionale Bruno Corda ripercorriamo luci e ombre di una normativa che ha bisogno di una profonda manutenzione per non perdere la battaglia contro la criminalità organizzata. Eppure le esperienze positive ci sono. E noi siamo stati in Sicilia, Campania, Calabria, Puglia, Sardegna e Basilicata per raccontarvele

di Alessandro Puglia

A 25 anni dall’approvazione della legge sui beni confiscati e sequestrati alla criminalità organizzata, promossa da Libera, Vita all’interno del progetto editoriale VitaASud propone un Instant Book (che sarà presentato in un evento pubblico alla presenza dei sottosegretari Francesco Paolo Sisto e Ivan Scalfarotto scaricabile gratuitamente) su quella che rappresenta una sfida aperta per lo Stato, le istituzioni e la società civile. E siamo chiamati ad affrontarla adesso, senza più ritardi, senza le tipiche lungaggini della burocrazia e con massima trasparenza. Per dire che la lotta alla mafia non è una delle priorità, ma la priorità.

A venticinque anni da quella legge così avanzata che nasce sulle fondamenta della legge La Torre-Rognoni, il grande emisfero dei beni confiscati è costellato da zone d’ombra. Secondo i dati pubblicati da Libera dal 1982 ad oggi sono 35 mila i beni confiscati, di questi circa 17 mila sono stati consegnati all’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni confiscati alla criminalità organizzata. Oltre 11 mila quelli confiscati in via definitiva che rimangono da destinare, circa 5 mila quelli bloccati in attesa dell’adempimento delle varie procedure amministrative. Ma se andiamo in Sicilia, la regione che da sola possiede quasi il 40 per cento dei beni confiscati sul territorio nazionale, il monitoraggio diventa davvero impietoso. Stando all’ultima relazione della Commissione antimafia regionale siciliana, presieduta da Claudio Fava, in Sicilia su 780 imprese definitivamente confiscate solo 39 risultano attive e per quanto riguarda quelle “destinate” solo 11 su 459 non sono state poste in liquidazione. Un fallimento. Totale.

Scrive Carlo Borgomeo, presidente di Fondazione Con il Sud, nella prefazione: «Sui beni confiscati manca un pensiero forte, mancano scelte politiche adeguate. Non si vuole fare i conti con l’evidente inadeguatezza dell’impianto normativo e degli strumenti di gestione rispetto alle caratteristiche del fenomeno». Ad accompagnarci in una lunga passeggiata antimafia attraverso i beni confiscati, assegnati, destinati o bloccati sono le firme più autorevoli del grande dibattito sul contrasto alle mafie. Il magistrato e consigliere del Csm Sebastiano Ardita scrive: «Non può combattere questa battaglia un burocrate che non ci crede». E aggiunge: «Lo Stato non può rimanere a guardare», altrimenti il rischio è quello, che «si fa apparire la morte più attraente delle regole». Abbiamo affidato al professore Nando Dalla Chiesa, presidente onorario di Libera, un intervento sull’importanza del valore culturale dei beni confiscati. Dalla Chiesa ricorda l’incontro pubblico avvenuto l’11 marzo nell’aula magna della Università degli Studi di Milano tra l’allora governatore della Banca d’Italia e il fondatore di Libera don Luigi Ciotti. Un duetto dove Draghi parlava della mafia come un virus che sfibra il tessuto economico e produttivo del paese. «Contrastare le mafie, la presa che esse conservano al Sud, l’infiltrazione che tentano al Nord, serve a rinsaldare la fibra sociale del Paese, ma anche a togliere uno dei freni che rallentano il cammino della nostra economia», diceva Draghi, nella sua memorabile relazione. A un imprenditore sociale quale Ugo Bressanello abbiamo chiesto di affrontare il tema visto dal punto di vista del Terzo Settore che oggi ha un bando ad hoc per l’assegnazione diretta dei beni. Ad illustrarlo è il direttore dell’Agenzia dei beni confiscati, il prefetto Bruno Corda che analizza alcune delle maggiori criticità di “raccordo” istituzionale.

Un bando che purtroppo non è sufficiente, da solo, per vincere questa partita. A raccontarci la sua esperienza è Tina Martinez Montinaro, moglie di Antonio Montinaro, caposcorta di Giovanni Falcone, che a settembre 2020 ha fatto richiesta per un appartamento nel centro di Palermo per dotare la sua associazione Quarto Savona 15 di una sede fisica. «Mi hanno proposto un bene con i tetti scoperchiati, le serrande bucate, i pavimenti tutti da rifare, ho risposto che potevano tenerselo». Sul tema dei beni confiscati occorre una riforma strutturale avendo in mente quelle che fino ad oggi rappresentano le pratiche positive nei singoli territori. Così nel feudo Verbumacaudo a Polizzi Generosa in Sicilia abbiamo incontrato giovani che hanno appena terminato la loro annata agraria in quello che fu uno dei primi beni sottratti alla mafia dietro cui c’era il lavoro di indagine di Giovanni Falcone. In Campania siamo stati ospiti della Casa Don Diana che oggi accoglie 45 associazioni, e poi ancora a Cerignola, in provincia di Foggia dove il bene rigenerato risponde – attraverso la filiera equa e sostenibile del pomodoro – ai dettami del caporalato. Il viaggio di VitaASud tra i beni confiscati ha fatto tappa in Calabria dove ad aprirci la porta di casa è stato Don Giacomo Panizza, per poi terminare questo che per noi oggi appare come un racconto corale in Basilicata e in Sardegna. Consapevoli che la sfida alle mafie sul terreno sempre fertile dei loro beni si vince insieme, ma con la presenza di uno Stato che è disposto a crederci fino in fondo. Perché come ci ricorda Don Luigi Ciotti nella sua intervista rigenerare quei beni significa prenderci cura della nostra Terra Madre.


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