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La RSA che vorremmo

Ridotta la portata della pandemia e messi in sicurezza gli anziani, resta la ferita di una narrazione ideologizzata e la sfida di ripensare le forme dell'abitare per la fascia più fragile e anziana della popolazione. Le RSA non sono quelle che vorrebbero gli anziani, ma nemmeno gli enti gestori, bloccati dalle norme dentro un modello rigidamente definito e ormai evidentemente superato. Le RSA dovrebbero essere soprattutto abitazioni di buona qualità e altri Paesi ci hanno puntato da decenni. Sbagliano tutti?

di Fabrizio Giunco

La pandemia da SARS-CoV-2 ha colpito duramente i più anziani. Le RSA italiane, come in tutti i paesi del mondo si sono trovate certamente in prima linea, accompagnate però da una strana narrazione: “massacri”, “stragi”, “abusi”, “maltrattamenti”, “privazione delle libertà personali”. Comunque troppe RSA e in mano a privati attenti solo al loro tornaconto. Tutto un po’ difficile da comprendere per chi in questi luoghi di cura vive e opera quotidianamente, ritenendo di svolgere un compito utile e necessario oltre che apprezzato da anziani e familiari. Oppure per organizzazioni non profit e del Terzo settore che hanno fatto e continuano a fare la storia dei servizi di questo paese.

Forse qualche puntualizzazione è necessaria. Fra marzo e dicembre 2020 l’Italia ha fatto registrare 108.000 decessi in più rispetto alla media degli anni precedenti, il 76,3% dei quali ha riguardato persone con più di 80 anni (ISTAT, 2021). Sono morti tutti in RSA? Assolutamente no. I morti COVID stimati nelle strutture italiane sono stati circa 20.000; gli altri sono avvenuti nelle case e negli ospedali. Forse, quindi, dinanzi ai numeri, la narrazione andrebbe un po’ rivista. Troppe RSA? Nel loro complesso, le strutture residenziali per anziani, fra cui le RSA, raggiungono in Italia meno del 2% della popolazione con più di 65 anni: meno della metà della media europea, che è intorno al 5% (OECD, 2018). Serve più assistenza domiciliare? Certamente sì. L’ADI in Italia raggiunge meno del 3% della popolazione 65+ (Bernabei, 2019); i servizi di assistenza domiciliari comunali, meno dell’1%, la metà di quelli raggiunti dieci anni fa. La media europea è dell’8%, con punte del 30%. Inutile parlare di Centri diurni o nuove forme abitative. Esistono, sono anche di ottima qualità in alcuni casi, ma sono sempre i grandi assenti della programmazione regionale e nazionale. Per cui, semplicemente, in Italia non abbiamo nessun surplus di servizi in alcun ambito: servirebbero, anzi, robusti investimenti e una sostanziale riforma di sistema che li ricomponga intorno a una visione unitaria.

Ora, sperando che le vaccinazioni e le conoscenze ci aiutino a convivere meglio con questo nuovo virus, resta però un tema altrettanto sostanziale. Le RSA attuali, anche quelle delle Regioni che ad esse hanno dedicato maggiori attenzioni, sono davvero le RSA che vorremmo e che vorrebbero sia gli anziani sia chi in esse lavora? Assolutamente no. Soprattutto dagli anni ’70 si è dato molto credito al modello ospedaliero prima, e alle priorità dei budget e della iper-regolamentazione poi. Per cui, un diluvio di norme stringenti, orientate a dire come devono essere costruite, quali standard adottare, chi devono accogliere, quanti e quali operatori debbano lavorarci. Attenzione: proprio queste regole hanno imposto un modello rigido, standardizzato, totalizzante e poco o niente modificabile. Non da meno, pochi investimenti, standard minimalistici, tariffe improbabili. Come dire, tanto sono anziani…

Ora, basterebbe guardare meglio ad altri paesi o anche a qualche singola esperienza italiana per capire che non si può perpetuare – norme alla mano – un modello ormai sorpassato. Le RSA dovrebbero essere soprattutto abitazioni di buona qualità, ricche di socialità, attente alla qualità di vita e a sostenere le esigenze primarie di chi ha limitazioni anche consistenti delle autonomie. Nelle RSA si dovrebbe mangiare bene, dormire meglio, ridere, scherzare, incontrare molte persone e essere sicuri di essere “anche” curati al meglio da medici e infermieri competenti. Chi si trova a doverci vivere, dovrebbe essere circondato da arredi, colori e spazi che risuonino dei significati dell’abitare.

Nessuno desidera un intorno bianco, asettico e ricco di attrezzature inquietanti. Un intorno che sembra progettato per sottolineare che chi in questi luoghi vive è, soprattutto, un malato e come tale deve comportarsi. La vecchiaia è una età della vita, non un problema, non una malattia. Non a caso i sistemi più evoluti, fra tutti certamente la Danimarca, hanno da tempo compreso che se le strutture residenziali sono costruite come belle abitazioni – ad esempio, con appartamenti e non camere, giardini e spazi di vita privata o di vita sociale – sono più gradite e modulabili.

Possono essere piccole o meno piccole, individuali o collettive e possono accogliere anziani anche con complessità rilevanti se progettate con l’attenzione dovuta a accessibilità e utilizzabilità. I servizi, possono benissimo muoversi e riaggregarsi intorno ai bisogni delle persone; nelle case personali come in quelle di servizio. I danesi, con la tipica concretezza nordica, ritengono che sia meglio e più efficiente spostare i servizi che le persone. Certo, si tratta di uscire da una logica di sistema che è di per sé esclusiva, catalogante ed escludente, per adottare paradigmi nuovi: l’abitare è la prima forma di servizio e i servizi del territorio devono integrarsi intorno ai bisogni e ai desideri delle persone, indipendentemente dal luogo in cui una persona abita. Difficile? Impossibile? Può essere, ma troppi paesi stanno seguendo questa strada da decenni. Chissà, forse stanno tutti sbagliando.

*Fabrizio Giunco è direttore del Dipartimento cronicità della Fondazione Don Carlo Gnocchi


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