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Adozioni: la sfida per il futuro sono le équipe multidisciplinari

Rosa Rosnati traccia un bilancio della Conferenza che ha coinvolto quasi 700 persone per parlare di adozione: «Abbiamo voluto restituire una visione a 360 gradi del bambino in adozione in tutte le sue dimensioni e questo deve essere lo sguardo con cui ci approcciamo ai suoi bisogni. Il rischio altrimenti è quello di semplificare e mettere delle etichette, anche di diagnosi, che non servono o che sono frutto di uno sguardo troppo settoriale»

di Sara De Carli

Si è svolta a Milano dal 6 al 9 luglio 2021, ospitata dall’Università Cattolica del Sacro Cuore, la VII International Conference on Adoption Research (ICAR). Curato dal Centro di Ateneo Studi e ricerche sulla famiglia dell’Università Cattolica, con la professoressa Rosa Rosnati come Chair, la Conferenza ha visto 340 interventi, oltre 300 iscritti e il venerdì pomeriggio per la sessione conclusiva le persone collegate alla diretta streaming sono state circa 700, da tutto il mondo. Per la prima volta, inoltre, la Conferenza è stata preceduta da una Summer School, che ha visto coinvolti 24 giovani ricercatori, dottorati o dottorandi, che hanno raccontato le loro piste di ricerca: fallimenti adottivi, contatti con famiglia biologica, adulti adottati sono risultati alcuni dei temi più indagati.

Alla Cerimonia di apertura la ministra Elena Bonetti, presidente della CAI, ha ricordato come nel 2020 il numero di coppie di genitori adottivi ha raggiunto un nuovo minimo storico, scendendo per la prima volta in Italia sotto i 1000 bambini entrati (-14% rispetto all'anno precedente) pur rimanendo l’Italia il secondo Paese al mondo dopo gli USA per numero di adozioni e ha ribadito come le adozioni internazionali abbiano sempre più un compito sussidiario: «Non bisogna dimenticare che l'Adozione internazionale è innanzitutto una misura protettiva al servizio dell'interesse superiore del bambino, quindi, l'apprezzabile desiderio degli adulti di offrire un'accoglienza familiare ad un bambino può essere soddisfatto solo se il bambino non può trovare nel suo Paese di origine, condizioni di vita e di benessere adeguate, di cui il diritto a vivere nel proprio Paese, espresso dal principio di sussidiarietà, è parte essenziale». La ministra ha messo anche l’accento sui bambini con bisogni speciali e sulla grande capacità di accoglienza delle nostre coppie: nel 2020, a fronte di 669 bambini adottati tramite AI, i bambini con bisogni speciali (con un disturbo del comportamento o un trauma, disabili fisici o mentali, con più di 7 anni, parte di un gruppo di fratelli) sono stati 395, pari più o meno al 60% del totale. La presidente del Tribunale per i minorenni di Milano, Maria Carla Gatto, parlando questa volta di adozioni nazionali, ha messo in rilievo come a Milano, grazie all’attivazione di nuove modalità di intervento attivate dal Tribunale, diversi bambini con disabilità o bisogni speciali siano stati inseriti in famiglie adottive, anche durante la pandemia.

Molti i temi affrontati: Maria Barbosa-Ducharne ha parlato delle competenze sociali dei bambini adottati, Amy Conley Wright ha presentato le “nuove” modalità di intervento che mantengono legami con le famiglie d’origine, dall’affido alla open adoption, Mia Dambach e Cecile Jeannin hanno trattato il diritto all’identità, il preoccupante numero di bambini nel mondo che non sono ancora registrati all’anagrafe e il diritto di veder conservate le informazioni relative all’origine. La sessione plenaria del venerdì pomeriggio ha visto la relazione di Laurie Miller sugli effetti a lungo termine sullo sviluppo cognitivo della malnutrizione patita nei primi anni di età, mentre Judith Eckerle ha parlato del Fetal Alcohol Spectrum Disorder. «La sindrome fetoalcolica è un argomento di grandissma attualità perché l’esposizione ad alcool e sostanze, soprattutto nella fase iniziale della gravidanza, porta a un ritardo nello sviluppo cognitivo del bambino, ma anche sintomi più lievi come ADHD e le dfficoltà nel contollo degli impulsi. E non dobbiamo pensare che riguardi solo le situazioni più estreme, di madri alcolizzate. In questo senso gli studi portati da Judith Eckerle non riguardano solo i bambini adottati: il bello della ricerca sulle adozioni è che ciò che studiamo per loro ci aiuta in realtà a migliorare l'intervento per tutti i bambini», sottolinea la professoressa Rosnati.

Al termine di una settimana intensa di spunti e contenuti, «il messaggio che emerge nettamente è l’assoluta necessità di avere uno sguardo interdisciplinare sulle adozioni», dice Rosa Rosnati. «Abbiamo voluto proprio restituire una visione a 360 gradi del bambino in adozione in tutte le sue dimensioni e questo deve essere lo sguardo con cui ci approcciamo ai suoi bisogni. Il rischio altrimenti tante volte è quello di semplificare e mettere delle etichette, anche di diagnosi, che non servono o che sono frutto di uno sguardo troppo settoriale. Le famiglie adottive dovrebbero incontrare nel loro percorso delle équipe multidisciplinari, come accade per esempio al Sant’Anna di Parigi. Se un bambino ha problemi di comportamento aggressivi o di attenzione, infatti, qual è l’origine del problema? Non lo sappiamo con esattezza: il trauma? la trascuratezza? la malnutrizione? la sindrome fetoalcolica? Nella maggior parte dei casi probabilmente tutti questi fattori insieme. Sappiamo con certezza che nella adozione si intrecciano una molteplicità di fattori». Bisogna quindi intervenire su più piani, anche sulla famiglia affinché capisca l’origine del problema e capisca quali dinamiche familiari diverse occorre agire. «Le équipe multidisciplinari in Italia non esistono e invece è proprio questa la sfida, creare dei centri specializzati dove vengono date consulenze a 360 gradi».

Rispetto al tema delle crisi adottive, di cui di recente il vice-presidente Starita ha parlato, la professoressa Rosnati dice che dal punto di vista qualitativo nelle ricerche si registra un «isolamento da parte delle famiglie e un contesto che offre interventi un po’ sporadici, incapaci di farsi carico della complessità di queste vicende. Torna il tema dello sguardo d’insieme e della complessità. Non di rado gli interventi vengono fatti da professionisti che hanno sì esperienza di adozione ma non una competenza specifica. ICAR serve anche a questo, a ricordare quanto sia necessario diffondere una cultura scientificamente fondata sull’adozione, cioè con interventi che abbiano un forte supporto scientifico, validati dalla ricerca. In Italia ancora non è così».


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