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L’innovazione sociale declini il desiderio di appartenenza

Il nostro welfare si è costruito a discapito di bisogni di appartenenza, che hanno trovato sempre meno possibilità di espressione a causa di una crescente ingegnerizzazione del sistema. L’innovazione sociale invece - caratterizzata dal recupero della dimensione di luogo e della capacità di co-costruire soluzioni “comuni” - ha contribuito a rendere desiderabile il “diritto all’interdipendenza”. Ma quali ne sono le condizioni di praticabilità?

di Flaviano Zandonai

“Dal diritto di indipendenza al bisogno di appartenenza” è ben più di uno slogan, come ben argomentano Marco Bollani e Roberto Franchini su Vita.it riprendendo le sollecitazioni emerse da un confronto organizzato dalla Conferenza Episcopale Italiana in occasione della recente Giornata internazionale dei diritti delle persone con disabilità istituita dalle Nazioni unite e che quest’anno era focalizzata sull’innovazione sociale.

Potrebbe infatti intestare una call to action rivolta a una pluralità di attori in grado di rigenerare il meccanismo di relazione sociale capace di soddisfare, con modalità nuove, questo bisogno di appartenenza e cioè il mutualismo. Appare evidente, infatti, che quel che etichettiamo come “innovazione sociale” ha contribuito, nelle forme tipiche dell’innovazione e quindi in modo carsico, sperimentale e a volte anche ambivalente, a far crescere la domanda di mutualismo ovvero quel che con una metafora potremmo definire “software delle interdipendenze”, provando così a rompere la gabbia d’acciaio del proceduralismo burocratico (prima ancora che dello scambio anonimo di mercato) dove importanti segmenti del welfare sono stati in questi anni irregimentati. Un’operazione, quest’ultima, ispirata, oltre che da esigenze di natura gestionale e di sostenibilità economica, anche da un imprinting legato soprattutto all’esigibilità di diritti individuali in forma di prestazioni. Niente di sbagliato in sé, solo che questo è avvenuto sostanzialmente a discapito di bisogni di appartenenza che a causa di questa crescente ingegnerizzazione del sistema hanno trovato sempre meno possibilità di potersi esprimere.

L’innovazione sociale caratterizzata dal recupero della dimensione di luogo e della capacità di co-costruire soluzioni “comuni” ha contribuito a rendere desiderabile, più che accessibile in termini di advocacy, il “diritto all’interdipendenza”. Un diritto il cui soddisfacimento avviene non attraverso la fruizione di determinati beni e servizi erogati da un qualche fornitore, ma “in corso d’opera” ovvero ri-educandosi alla vita collettiva.

Da questo punto di vista occorre però chiedersi quali siano le condizioni di praticabilità di questo percorso in una situazione in cui da più parti si evidenzia un progressivo impoverimento delle capacità di creare e gestire legami di mutuo riconoscimento, supporto e beneficio. Una sorta di dis-abilità sociale determinata da una distribuzione ineguale delle capacità relazionali. Una risposta interessante in tal senso viene da un contributo pubblicato nella nuova edizione del rapporto sulla sussidiarietà in Italia curato, tra gli altri dal presidente dell’Istat Gian Carlo Blangiardo. Lo studio, che utilizza la banca dati Bes – Benessere equo e sostenibile, misura le correlazioni fra tre macro dimensioni: il sentimento di sé relazionale, ovvero quanto ci sentiamo individui sociali, la sussidiarietà vera e propria, approssimata dalla partecipazione a organismi e attività di terzo settore e, aspetto tutt’altro che secondario, fattori di “sviluppo sociale” misurati attraverso variabili “hard” come salute, lavoro, formazione, sicurezza, ambiente, ecc. La domanda di ricerca, ma anche di politica, è se questa catena a tre anelli ha tenuto in anni così complessi come quelli recenti.

Un dettaglio non da poco perché dalla solidità delle correlazioni tra questi tre fattori scaturisce un contesto più o meno favorevole a generare appartenenza su basi nuove dove, come ricordano Bollani e Franchini, è la dimensione di inclusività degli elementi più fragili a rappresentarne il valore sostanziale pena il rischio, molto elevato, che l’appartenenza, anche basata su scambi mutualistici, avvenga in via esclusiva tra “pari” non mettendo così a frutto il principale elemento qualificante del nostro tempo, cioè la diversità.

Il risultato? La catena tiene e anche in modo robusto, seppur con grandi divari a livello territoriale e con un elemento di fragilità che andrà meglio monitorato e dovrà essere oggetto di interventi mirati, ovvero un certo declino della percezione sociale di sé e delle conseguenti capacità ad agire in senso relazionale. È questo uno dei principali strascichi sociali del “long covid” che richiede cure speciali in luoghi dedicati come quelle infrastrutture sociali – case di comunità e altre tipologie – che il Pnrr promette di spargere sul territorio anche se non con la necessaria attenzione in termini di gestione sociale delle interdipendenze che si dovrebbero sviluppare al loro interno e che rappresentano il vero e proprio impatto di queste infrastrutture. Un aspetto, quest’ultimo, che richiederà agli attori dell’innovazione sociale uno sforzo ulteriore in termini di capacità di investimento e di azione.

*Flaviano Zandonai è open innovation manager del Gruppo Cooperativo CGM

Foto di Marco Bianchetti, Unsplash


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