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Sanità & Ricerca

I nostri corpi per la scienza. E per gli altri

Prestarsi a sperimentazioni cliniche, sottoporsi a test farmacologici, anche a fronte di alcuni rischi: l'ultima pandemia ha registrato una massiccia adesione alle sperimentazioni vaccinali. Ora uno studio della rivista scientifica Plos One, su quasi 2mila volontari, ci dice chi sono e cosa pensano quanti offrono il proprio organismo e le sue reazioni per sconfiggere le malattie

di Nicla Panciera

Fare la propria parte per il bene degli altri e della comunità. Questa è la ragione principale alla base della decisione dei tanti di prendere parte a quelle particolari sperimentazioni cliniche per la ricerca di un vaccino efficace contro il Covid-19 chiamate Human challenge studies (o infezione umana controllata, Hct), di cui si è molto sentito parlare in particolare nelle prime fasi della pandemia, nel 2020. Lo mostrano le varie testimonianze di chi non ha esitato a farsi avanti e lo confermano i risultati del primo studio su quasi duemila volontari, pubblicato sulla rivista Plos One.

Gli Human challenge studies prevedono che si inoculi il virus in un volontario sano, subito dopo la somministrazione del candidato vaccino contro il Covid, per vedere se si ammala, e poi trattarlo con farmaci sperimentali. Nel 2020, non c’erano vaccini e i dati sui farmaci sperimentali erano pochissimi. La gravità della situazione e la necessità di accelerare i tempi della ricerca hanno portato all’avvio di questi trial e il dibattito etico su quanto fossero giustificabili i rischi per i volontari sani non sembra averli dissuasi dall’esprimere la propria intenzione di partecipare alle sperimentazioni.

«A tutto lo staff dell’ospedale era stato chiesto se volevamo partecipare al trial clinico del vaccino AstraZeneca contro il Covid. Non ci ho pensato due volte. Credo di averne parlato con mio marito, ma la decisione è stata presa velocemente», ci racconta un’infermiera di ricerca clinica britannica che chiameremo Victoria, nome di fantasia. L’infermiera di ricerca è una figura che svolge attività di ricerca, focalizzandosi sull’assistenza ai pazienti arruolati in protocolli sperimentali. Perché l’ha fatto? «Per aiutare con la pandemia. Quando ho ricevuto il vaccino contro la polmonite nel braccio di controllo invece del vaccino sperimentale (c’erano due bracci, in uno veniva somministrato il vaccino AstraZeneca, nell’altro il vaccino contro la polmonite, ndr), mi è sembrato di non aver aiutato tanto quanto avrei voluto, anche se lavorando in ricerca clinica so bene quanto sono importanti i controlli». In questi mesi, l’infermiera ha lavorato nelle sperimentazioni di farmaci contro il Covid, negli studi Tactic-R e Recovery: «Mi sono sentita orgogliosa di essere stata messa a lavorare nel team di ricerca Covid 19 per un anno. C’erano aspetti positivi e negativi nello spostamento. Ma sono felice di averlo fatto».

È infermiera di ricerca clinica anche la britannica Zareen Beekhun, originaria delle Mauritius. Dopo un master in antropologia medica conseguito all’University college of London nel 2016, oggi mentre lavora a Londra per il servizio sanitario britannico Nhs e sta completando un dottorato al King's College London sulle percezioni e aspettative dei partecipanti e del personale di ricerca agli studi clinici, e qual è l'impatto del fraintendimento terapeutico su queste percezioni e aspettative. Durante la pandemia ha lavorato con il Covid team del Guy’s and St Thomas NHS Foundation Trust. «Volevo lavorare in prima linea nel NHS contro Covid. Quando si è presentato un posto vacante per il team di ricerca Covid, applicare è stata una decisione immediata. Sapevo che la mia esperienza come infermiera di ricerca sarebbe stata utile al team. Ne ho parlato con la mia famiglia, ma avevo già deciso di applicare». Questa scelta le ha ridato un senso di agentività, termine tecnico che indica la capacità di agire con efficacia nel proprio contesto, e con esso un significato di vita: «Facevo parte del pubblico a cui era stato detto di proteggersi a casa. Il senso di isolamento era profondo: mi sentivo male per non poter essere d'aiuto in prima linea. Lavorare con il Covid team mi ha permesso di sentirmi di nuovo un'infermiera. Penso di essere riuscita ad aiutare il più possibile. Il mio lavoro con il team di ricerca Covid era limitato nel tempo (solo per un anno), quindi quando sono tornata al mio vecchio lavoro, ero soddisfatta dei miei sforzi. Questo senso di soddisfazione era dovuto anche al fatto che potevamo vedere che i ricoveri ospedalieri e i decessi per covid stavano diminuendo e il lockdown si stava allentando».

Infine, motivazioni altruistiche emergono anche dal report annuale sui partecipanti ai trial clinici redatto dalle Reti di ricerca clinica del National Institute for Health Research Nihr britannico.

Le motivazioni del volontario

Sapere chi sono e cosa spinge i volontari non è irrilevante, dal momento che tra le questioni sollevate vi è proprio il rischio di una maggior vulnerabilità dei soggetti, che può essere dovuta a un’alterata percezione del rischio o a ragioni economiche, che rendono attraente la partecipazione allo studio in virtù del rimborso previsto. A ridimensionare questi timori è arrivato il primo studio condotto su alcuni soggetti iscritti nel database di “1Day Sooner”, che in poco tempo ha raccolto almeno 40mila persone da 160 nazioni pronte a farsi reclutare nelle sperimentazioni, non ancora partite al momento della rilevazione. La survey, condotta su 1.911 volontari e su un gruppo di controllo di un migliaio di persone, ha indagato vari aspetti, come le caratteristiche socio-demografiche, le abitudini di vita e i tratti del carattere. Ai volontari, sono state presentate anche dieci possibili affermazioni tra cui scegliere le tre principali in cui si rispecchiavano. È emerso così che a muoverli erano ragioni autenticamente altruistiche: le risposte più scelte, infatti, sono state «l’aiutare gli altri e potenzialmente salvare delle vite» (95,5%), «contribuire al progresso della medicina» (79,2%) e «un modo di fare qualcosa di positivo in una situazione in cui mi sentivo senza speranza» (46,6%). Le risposte meno scelte sono state «voler ricevere il rimborso per la partecipazione» (4%) o «voler scoprire qualcosa della propria salute» (4%). [Nella lettura delle percentuali, va considerato che ogni rispondente ha scelto tre opzioni di risposta, ndr].

Ne abbiamo parlato con Silvia Camporesi, bioeticista del King’s College di Londra, attualmente visiting al Centre for the Study of Contemporary Solidarity dell’Università di Vienna: «Le risposte sono in linea con quello che mi aspettavo in base a una ricerca qualitativa che ho condotto durante il mio dottorato all’Istituto europeo oncologico – Ieo sulle motivazioni che avevano spinto pazienti ad arruolarsi a studi di “fase 0”, nuovi tipi di studi in oncologia che non offrivano alcun beneficio ai pazienti. Risultò che lo facevano per motivi altruistici e per contribuire al progresso della medicina e della scienza. Inoltre, lo facevano anche per ricambiare in qualche modo la partecipazione di chi prima di loro, prima di noi, aveva partecipato a studi clinici». Per quanto riguarda i risultati della survey, «è interessante e unico nel contesto degli Human challenge studies la risposta numero 3: in una situazione di grandissima incertezza, la partecipazione agli studi fornisce autonomia, identità e un senso di agency (libero arbitrio) nella nostra vita».

Altruisti anche fuori

Dallo studio emerge anche che, rispetto al campione di controllo, i volontari erano molto più impegnati nel sociale, in attività di volontariato, beneficenza, donazione del sangue e degli organi; avevano inoltre punteggi più alti in quel particolare tratto di personalità onestà-umiltà, detto anche fattore H, tipico di chi tiene in gran considerazione gli altri.

Scrivono i ricercatori: «Tutti insieme, questi risultati indicano che le caratteristiche degli individui che esprimono l’interesse per gli Hct Covid-19 e l’intenzione a prendervi parte non comprova le preoccupazioni in merito alla vulnerabilità dei soggetti o all’influenza indebita». L’influenza indebita è un concetto molto discusso in etica della ricerca clinica, secondo cui gli «studi clinici non sono eticamente giustificabili se pongono ai partecipanti un’offerta che “non possono rifiutare” (pensando al film..) perché non hanno altre opzioni aperte sul tavolo» spiega Camporesi. «In pratica, la preoccupazione dell’influenza indebita si è tradotta con l’evitare compensazioni che potessero far sì che le persone partecipassero solo per ricevere un pagamento, quindi di solito i comitati etici raccomandano pagamenti bassi o solo rimborsi». Su questo, ricorda la bioeticista, il dibattito è andato evolvendosi. Tanto che «c’è chi sostiene che il problema principale non starebbe nel compenso in sé, ma nel suo essere troppo scarso rispetto al tempo speso e ai rischi corsi; che la soluzione per spingere i volontari a considerare bene tutti i rischi non è certo quella di pagarli una miseria e che, comunque, un giusto compenso non lava via le motivazioni altruistiche del gesto» spiega Camporesi.

Un altro tipo di influenza indebita si può concretizzare per alcune fasce della popolazione che non hanno accesso o non hanno un pieno accesso al sistema sanitario, per esempio negli Stati Uniti per via di un’assicurazione medica insufficiente, che si rivolgono agli studi clinici nella speranza di ottenere cure mediche. Dice la bioeticista: «Invece, i dati di questo studio presi nella loro totalità non confermano le preoccupazioni espresse all’inizio della pandemia che gli HCT sarebbero stati “non etici” fino a prova contraria, perché ci si aspettava che seguissero un pattern di reclutamento a fini di sfruttamento». Inoltre, i soggetti dello studio avevano un’educazione medio-alta, quindi erano in grado di comprendere appieno i rischi inerenti alla partecipazione e descritti nel consenso informato, e avevano una certa situazione economica, che esclude la necessità di partecipare per denaro.

Conclude Camporesi: «Nella ricerca clinica, si parla spesso di un contesto di “eccezionalità” che fa sì che si richiedano delle protezioni al tipo di opzioni presentate all’individuo, mentre in altri contesti non si limita certo la scelta personale in base al fatto che un’attività intrinsecamente rischiosa sia pagata troppo bene. Si pensi a sport come la discesa libera o il bungee jumping, oppure a scelte di vita peculiari come l’attraversare l’atlantico in canoa. Perché se lo si lascia fare in un contesto al di fuori della ricerca, non lo si può far fare all’interno della ricerca? Ci sono ragioni storiche per questo protezionismo, ma ora i nostri punti di riferimento non sono più gli stessi. Sono propensa a ritenere che al primo posto venga la libertà individuale nello scegliere quale tipo di pratiche siano ricche di senso e di significato, anche se tali attività sono rischiose e la ricerca clinica non viene certo al primo posto in questa classifica delle attività più rischiose».

La foto in apertura è di Lucio Patone su Unsplash


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