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Costanza e Vullo, custodi di una storia della quale Messina Denaro non può appropriarsi

«Lo Stato? Si è dimenticato di noi, cancellando in parte la memoria di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, della cui eredità eravamo testimoni anche noi». Per Giuseppe Costanza e Antonio Vullo, i due autisti sopravvissuti alle stragi di Capaci e via D’Amelio, l’arresto di Matteo Messina Denaro è sicuramente un successo, ma il sacrificio dei due magistrati non sarà stato vano solo se deciderà di parlare

di Gilda Sciortino

«Sicuramente tutto molto positivo quel che sta accadendo, dall’arresto alla scoperta dei vari covi, ma la verità è che per più di 30 anni Matteo Messina Denaro è riuscito a fare il latitante. Se, però, tutto si ferma a questa cattura, come successo per altri “illustri” boss, allora non avremo fatto niente».

La vita di Giuseppe Costanza si è fermata il 23 maggio del 1992. Quel giorno, sull’autostrada che dall’aeroporto di Punta Raisi che verrà intitolato nel 1993 ai due giudici uccisi quell’anno dalla mafia, Costanza si spostò sul sedile posteriore dell’auto perché Giovanni Falcone desiderava guidare. Sarà un cambio di programma che lo salverà, mentre Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo perderanno la vita.

«Mi auguro solo che il futuro cambierà grazie ai tanti giovani che oggi io e tanti altri testimoni incontriamo in giro per l’Italia, purtroppo più fuori dalla Sicilia che nella mia stessa terra. E questo mi dispiace molto».

Cosa ci dice l’arresto di Messina Denaro. Cosa è cambiato in questi anni?

«Che c'è qualcuno in meno, ma forse anche che c’è qualcuno più impaurito. Del resto, non si può rimanere latitanti per 30 anni, 38 anni addirittura Provenzano o 23 come Riina, senza avere degli appoggi a garanzia».

Una vita difficile, quella di Giuseppe Costanza, dal 1992 a oggi. Diversamente da quel che doveva essere. Chi è lei oggi?

«Sono senza ombra di dubbio un'altra persona rispetto a quella che 32 anni fa lavorava per lo Stato, tanto fedele a Giovanni Falcone da restare insieme a lui per otto anni. Le confidenze che mi ha fatto le so solo io. Avrei, però, voluto raccontare diverse cose, ma nessuno mi ha mai voluto ascoltare. Solo perché ho insistito sino allo stremo, nel 1998 sono riuscito ad arrivare alla Commissione Parlamentare Antimafia, ma non so se hanno mai preso con la dovuta considerazione la mia testimonianza. Posso solo dire che la settimana prima che venisse ucciso, il giudice Falcone mi fece una confidenza, dicendomi che sarebbe divenuto il Procuratore Nazionale Antimafia, che ci saremmo organizzati a Palermo come ufficio e che ci saremmo mossi con un elicottero. Forse qualcuno ha avuto paura che ciò avvenisse. A Roma avrebbe potuto fare il Direttore generale degli Affari Penali, invece continuò a lavorare affinché nascesse quella struttura che oggi si chiama Direzione Nazionale Antimafia. Lui andò a Roma perché a Palermo non gli volevano far fare più niente. Successivamente, fu la volta di Paolo Borsellino perché avrebbe preso il posto di Falcone. Troppe coincidenze. Ricordo ancora quando lo stesso Borsellini venne a trovarmi in ospedale dopo quel tragico 23 maggio, Chiese ai miei genitori che erano con me di lasciarci soli e io gli dissi quel che avrei voluto poi dire ad altri. Sapeva molto bene quello che stava facendo Giovanni Falcone perché non erano più amici ma fratelli, si confidavano tutto».

Tanta amarezza colora le giornate di Giuseppe Costanza, rimasto solo nonostante il suo prezioso servizio.

«Diciamo che si sono dimenticati di me. Andavo in ufficio la mattina, firmavo e non avevo niente da fare. Mortificante. Dopo 10 anni ho deciso di andare in pensione perché non ce la facevo più. Ora vado in giro per l'Italia a parlare con i ragazzi. Spesso mi chiedono se avevo paura e io dico che la paura c'è chi la affronta e chi no. Noi tutti sapevamo che sarebbe potuto succedere qualcosa di terribile, anche un conflitto a fuoco in piena città, perché eravamo nel mirino, ma non a quel livello. Io penso sempre a quel che mi ha lasciato in eredità e cioè la sua correttezza e il grande rispetto che aveva nei miei confronti. Aveva una tale fiducia nei miei confronti che ero io a comunicare i suoi spostamenti. Forse anche perché, da quando andò a Roma nel ’91, scendendo solo una volta alla settimana, la scorta di sempre cessa di essere al suo servizio. Veniva ricomposta per l’occasione. Basti pensare che per Rocco Dicillo il 23 maggio fu il primo giorno con lui».

L’arresto di Messina Denaro cambierà qualcosa?

«Non so dirlo. Sono convinto che passerà ancora una trentina d'anni prima di sapere non dico tutta ma almeno una buona parte di verità. Noi, però, non ci saremo più. Mi auguro che saranno i giovani che io e i tanti altri testimoni di quegli anni che hanno voglia di raccontarsi incontriamo ad assumersi la responsabilità di un’eredità difficile. Mi dispiace una cosa e cioè che a chiamarmi sono soprattutto gli studenti dell’alta Italia. Dalla Sicilia molto pochi. Devo dire che c’è un mondo diverso nelle altre regioni. Io sono un siciliano e questo mi fa soffrire».

Si sente allo stesso modo sconfortato anche Antonio Vullo, l’autista di Paolo Borsellino che quel 19 luglio decise di fare una manovra per spostare l’auto e non venne investito dall’onda d’urto dell’esplosione.

«Messina Denaro dovrebbe parlare per liberarsi la coscienza. Sarebbe un’opportunità per salvaguardarsi un futuro “altrove”. Non esulto, però, perché combatto ancora con le conseguenze, anche fisiche, di quanto accaduto quel giorno. La mia vita da allora ha avuto uno stravolgimento inaspettato, dal quale non riesco a riprendermi perché ogni giorno ci sono evoluzioni nuove. Giornate difficili perché faccio i conti con la storia. Dico, però, che bisogna essere ottimisti e io lo sono diventato, convinto che non bisogna abbassare la guardia per combattere l'evoluzione della mafia presente nei palazzi di potere. Io sono stato pochi giorni con il giudice Borsellino, dal 31 maggio al 19 luglio, perché sono entrato a fare parte della sua scorta dopo la strage di Capaci. Ho conosciuto una persona diversa da come la immaginavo perché era sempre molto attento a tutti noi; era molto legatoi alla famiglia e ci trattava come figli. Ci teneva alto il morale raccontandoci anche delle barzellette, nonostante sapesse bene che sarebbe stato il prossimo. Non so quanti avrebbero avuto quella forza. Lo Stato, però, non ha fatto nulla, non ha messo in atto quella protezione necessaria per evitare quel che era accaduto a Giovanni Falcone».

Una vita stravolta anche positivamente.

«Si, perché non mi aspettavo innanzitutto di diventare testimone di una generazione. Dopo vari conflitti interiori con me stesso, però, ho capito che bisogna fare conoscere alle nuove generazioni quel che è successo. I ragazzi hanno bisogno di sapere quali sono i giusti comportamenti per capire da che parte stare. Abbiamo visto, in occasione di questo arresto, gente che ha applaudito da un lato ed altri che hanno osannato Messina Denaro. Non dobbiamo, però, sconfortarci, ma continuare a seguire la strada che ci porta a respirare quel “fresco profumo di libertà” che Paolo Borsellino cercava e proteggeva. Quando io incontro i ragazzi racconto anche il mio incontro con Luciano Traina, che il 19 luglio, camminando in mezzo alle macerie dell’esplosione, trovò il piede del fratello Claudio. Io l’ho riconosciuto dalla scarpa. Ho poi visto brandelli di carne ovunque. Uno scenario che non avevo mai visto in vita mia, neanche in guerra. A chi mi dice che sono stato fortunato rispondo sempre che sono vivo per miracolo, si, un vero miracolo. Ecco perché credo che io debba testimoniare il mio essere in vita».