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Anziani, a Carpi il robottino-badante in cooperativa

Il paese più vecchio d'Europa cerca soluzioni per l'assistenza al crescente numero di anziani, si guarda anche alla tecnologia. A Carpi, la sperimentazione del robottino Nao, che coinvolge la cooperazione sociale, richiama anche il New York Times. Ligabue della cooperativa "Anziani e non solo": «Non sostituirà l'operatore umano, ma servono azioni coordinate di sperimentazioni». Facchini, sociologa:«Manca la rete sociale. Il modello badanti? Conseguenza dell'assenza di politiche organiche di sostegno alla non autosufficienza»

di Nicla Panciera

«Me lo porterei a casa. Ma il rischio è che mi affezioni troppo». Bona Poli, 85enne di Carpi, è visibilmente entusiasta nel congedarsi dal suo nuovo amico, il robottino Nao, dopo un pomeriggio diverso dal solito, trascorso tra chiacchiere e canzoni. All’incontro, organizzato dalla cooperativa sociale «Anziani e non solo», hanno partecipato una trentina tra anziani e loro caregiver, geriatri, servizi sociali e un team ricercatori del Laboratorio di psicologia cognitiva dell'università Parma, al lavoro con Nao, robottino sviluppato dall’azienda francese Aldebaran Robotics e programmabile a seconda delle necessità dell’utenza. L’obiettivo del focus group, cui ha assistito anche un cronista del New York Times (qui la sua storia «Chi si prenderà cura dei più anziani in Italia? I robot, forse»), era quello di valutare le reazioni dei presenti e raccoglierne i bisogni, per una più accurata implementazione del robot.

«Nao? Promosso a pieni voti. Accolto favorevolmente da tutti i presenti, anziani con un’età media di 76 anni, accompagnati dai loro familiari e caregiver»» è il bilancio di Loredana Ligabue, responsabile delle Politiche per i caregiver familiari della cooperativa di innovazione sociale «Anziani e non solo» di cui è fondatrice e segretaria dell’Associazione dei caregiver familiari Carer. Le richieste avanzate dal pubblico sono state anche molto concrete, come quella di un robot capace di sollevare un allettato, operazione complessa e rischiosa da svolgere per un individuo da solo.

Il robottino fa parte di una famiglia di macchine capaci di interagire con bambini e adulti, programmate per svolgere attività sociali di vario tipo personalizzate all’utente, affiancandosi o meno all’operatore umano. «Per rispondere alle esigenze degli anziani, il linguaggio di Nao è stato adattato alle loro capacità linguistiche e di comprensione» spiega Ligabue. «A seconda dei casi, l’utilizzazione può essere di attivazione o di stimolazione cognitiva, che sono rispettivamente l’intrattenimento o l’intervento terapeutico volto a ritardare il più possibile il decadimento cognitivo tipico dell’età».

A Carpi, gli anziani hanno ascoltato storie e canzoni, dialogato e hanno fatto un po’ di moto seguendo le istruzioni di Nao. Questo maestro di canto e istruttore di fitness un po’ speciale, per ora, tanto più in là non può andare. Infatti, l’affiancamento uomo-robot in ambito industriale è già una realtà che non suscita perplessità e ci libera dal lavoro pesante, ripetitivo e pericoloso. Per Nao e i suoi vari cugini manca ancora il passaggio alla commercializzazione che richiede la produzione su larga scala. Ma non solo.

Un robot per amico? Ci siamo quasi

Chiedere a un robot di farsi carico di compiti sociali, socialissimi, come intrattenere un membro della società o svolgere attività di assistenza sociale è una delle soluzioni esplorate per far fronte alla crescita degli anziani non auto-sufficienti. Dei vari film, da «Blade Runner» a «Ai» a «Io, Robot», ci colpiscono gli aspetti emotivi e sociali delle macchine e la creazione di rapporti affettivi e sociali con gli umani. Se la nostra propensione ad attribuire intenzionalità a cose e oggetti inanimati favorisce la nascita di tali relazioni, per facilitare l’interazione tra noi e loro la sfida non è solo tecnica e tecnologica, ma richiede la comprensione di alcuni aspetti, come l’emozione e la cognizione umana, non ancora del tutto chiari. Inoltre, bisogna poi equipaggiare i robot con i più adeguati sistemi di intelligenza artificiale e, ad esempio, a Milano e a Pavia team di neuroingegneri stanno dotando Nao di capacità di apprendimento del tutto simili a quelle del nostro encefalo. Infine, nell’ottica di un progressivo inserimento dei robot nella società, diventa cruciale studiare come li percepiamo: si sa, ad esempio, che un umanoide troppo umano può scatenare diffidenza e paura.

Alla ricerca di nuove soluzioni

«Idealmente, il robot intrattiene l’anziano e affianca il caregiver che può con maggior serenità dedicare la propria attenzione ad altre faccende» spiega Ligabue, che ammette il permanere di una certa resistenza ideologica e culturale legata alle nuove tecnologie e alla robotica, anche da parte degli operatori che, però, rassicura: «Le macchine valorizzeranno le competenze degli operatori umani, non si sostituiranno mai a essi». E conclude: «In un momento di cambio epocale come quello che stiamo vivendo, servono azioni coordinate di sperimentazione, in cui soggetti diversi come ricercatori, utenti e industria collaborino per la creazione di circuiti virtuosi sociali e sanitari».

Due milioni 151 mila badanti entro il 2023

Quanto all’entusiasmo verso Nao, non sappiamo se l’amicizia con il robot supererebbe la prova del tempo. Di certo c’è il progressivo aumento del bisogno di cura per gli anziani nel nostro paese, che ha la più alta percentuale di over 80 di tutta Europa (7,6% rispetto al 6% della Ue). Le stime parlano di 8 milioni e mezzo di italiani impegnati in attività di assistenza, di cui le badanti sono, secondo il Censis, un milione e 655 mila, ma entro il 2030 supereranno i due milioni.

Solitudini che si rispecchiano

«Sono le reti sociali e le reti di sostegno a mancare, è l’elemento relazionale l’aspetto fondamentale, anche con il robot» taglia corto Carla Facchini, sociologa dell’Università degli studi di Milano Bicocca, studiosa di invecchiamento e di politiche sociali per gli anziani e presidente dell’Associazione Nestore per l’invecchiamento attivo. Anche perché spesso il caregiver resta solo molte ore al giorno con la persona che assiste e vive «un sovraccarico emozionale e l’impossibilità di confrontarsi con gli altri. Due solitudini che si rispecchiano» le definisce la studiosa di questo contesto di lavoro non tradizionale. «Una situazione gelatinosa, dove spesso si osserva una duplice dipendenza, quella economica del caregiver e quella affettiva dell’assistito nella sua quotidianità».

Il modello badanti? «Frutto della mancanza di politiche»

Tale modello badanti, che si è imposto in Italia negli ultimi 25 anni, è diffuso anche in paesi come Grecia, Portogallo e Spagna che non hanno attuato politiche sociali differenziate. «Nel nostro paese, sono mancate politiche organiche di sostegno alla non autosufficienza. Oggi, c’è meno assistenza di un tempo. Inoltre, negli anni Sessanta, il 3% degli anziani era in casa di risposo; oggi, nonostante l’invecchiamento della popolazione e l’aumento dei grandi anziani, la percentuale è invariata. Vedremo cosa cambierà con la nuova legge». Altri paesi hanno adottato soluzioni domiciliari, residenziali e di appartamenti protetti; qui, il lavoro domiciliare di cura, spesso svolto da persone estranee alle famiglie, la fa da padrone, complici la robustezza economica dell’80% degli anziani e ragioni culturali che frenano l’abbandono della casa di proprietà in favore di altre residenze. «L’idea della famiglia tradizionale, che si tiene in casa i propri anziani, è da aggiornare» puntualizza la sociologa «Negli anni Cinquanta e Sessanta, le famiglie estese, con la compresenza di tre generazioni sotto lo stesso tetto, erano il 20%, mentre adesso non si va oltre il 2-3%, con le convivenze più diffuse nelle fasce più povere dove pensione e assegno di accompagnamento aiutano un po’ tutti». Sempre più spesso, «i figli organizzano da lontano la gestione del genitore non autosufficiente, il lavoro venendo svolto da persona retribuita».

Uno tsunami in arrivo

La situazione è in rapido mutamento, allerta Facchini, per il cambiamento delle reti parentali legato «a varie forze demografiche, economiche e sociali, come la precarizzazione del lavoro, l’invecchiamento della popolazione, la bassa natalità e il crescente numero di famiglie mononucleari». La sociologa che la minor forza economica e sociale degli anziani di domani avrà delle ricadute notevoli sui modelli di cura e le debolezze del sistema attuale diventeranno drammaticamente evidenti. Al momento, dice, «preoccupa la crescita degli anziani soli, senza figli e senza rete parentale, quella preziosa risorsa un tempo costituita dai figli di fratelli e sorelle. All’aumento del numero di anziani soli contribuisce un fenomeno per l’Italia recente, quello dei divorzi grigi, riguardanti coppie sposate anche da venti o trent’anni». Che fare? «Non c’è una soluzione unica, le soluzioni devono essere tante» dice Facchini, quindi la vita autonoma al domicilio, le Rsa, l’housing sociale, di cui si inizia a parlare (anche a Milano), realtà in altri paesi, che consiste nella condivisione di un’abitazione e di servizi vari; infine, le strutture protette per i non autosufficienti, bisognosi di specifici trattamenti socio-assistenziali e sanitari di base.


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