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Appello a chi fa ricerca: «La scienza non sia razzista»

La rivista Nature aggiorna le raccomandazioni agli autori, chiedendo alti standard di rigore nel maneggiare concetti che sono cruciali ma molto delicati per il rischio di pregiudizi razziale

di Nicla Panciera

«È deplorevole ma vero che i ricercatori abbiano usato e abusato della scienza per giustificare credenze e pratiche razziste». Inizia così l’editoriale di Nature, una delle più prestigiose riviste scientifiche, in cui annuncia la necessità di maggiore attenzione da parte dei ricercatori nel maneggiare concetti delicati come quelli legati all’etnia e altre caratteristiche sociali, sempre più presenti anche nella ricerca biomedica. Il rischio da scongiurare è che la scienza e la comunicazione dei suoi risultati alimentino pregiudizi e razzismo.

La ricerca clinica stratifica i pazienti in gruppi accomunati da simili caratteristiche genetico-molecolari, di malattia, di abitudini, socio-demografiche e così via, sulla base di criteri sempre più stringenti nell’ottica della cosiddetta personalizzazione della medicina, che punta a individuare interventi di prevenzione, diagnosi e terapia mirati al singolo individuo perché ogni caso è diverso dall’altro. Tra questi criteri, ci sono anche le origini etniche. Ci sono molte ragioni importanti, si legge su Nature, per considerarle. Infatti, anche se l’approccio etnico in medicina sembra dare il meglio di sé per quelle malattie attribuibili a specifiche varianti geniche, in realtà la letteratura scientifica mostra che alcune patologie hanno un’incidenza maggiore, fattori di vulnerabilità e sintomi diversi in alcuni sottogruppi e capire il perché è importante. Contemporaneamente, bisogna essere consapevoli che «le persone di colore e le minoranze sono oggetto di discriminazione nell'istruzione, sul lavoro e altrove. Queste situazioni devono essere – e vengono – studiate, in modo che i problemi possano essere meglio compresi e si possano trovare soluzioni».

L’appello è un «piccolo passo per garantire che la ricerca non finisca inavvertitamente per danneggiare i gruppi sottorappresentati». Qualcosa di simile era già accaduto per il sesso e il genere dei soggetti, oggetto di numerose raccomandazioni solo di recente. Si pensi che solo da trent’anni è obbligatorio l’inserimento di un adeguato numero di donne negli studi clinici da parte degli Istituti di Sanità americani (Nih). Fino al 1993, i risultati della ricerca biomedica erano ottenuti da sperimentazioni condotte su maschi bianchi, una sottopopolazione non rappresentativa dei pazienti che poi avrebbero assunto i farmaci.

Nature, che aveva già riconosciuto il proprio ruolo nel perpetrare discriminazioni (qui, un recente editoriale), sollecita oggi gli autori a «considerare la potenzialità che ha la ricerca di causare danni». L’obiettivo è «il rispetto della dignità e dei diritti dei vari gruppi di persone». Una mossa che è benvenuta ma «non necessariamente rivoluzionaria» è il commento di Angela Saini, riconosciuta giornalista scientifica britannica di origini indiane da tempo al lavoro su questi temi. In una mail, ci scrive: «La rivista Nature sta seguendo le orme delle istituzioni scientifiche e degli enti finanziatori che stanno già chiedendo ai ricercatori di pensare in modo più attento e critico al modo in cui affrontano i dati razziali». Saini, autrice del bestseller Inferiori. Come la scienza ha penalizzato le donne, nel suo ultimo saggio intitolato Superiori. Il ritorno del mito della razza, spiega come nell’Illuminismo, con la nascita della scienza moderna, l'uomo maschio bianco europeo abbia iniziato a studiare e categorizzare le popolazioni per giustificare schiavitù, colonialismo e barbarie. È proprio per opera della scienza, quindi, che l'idea di razza, che si basa su categorie arbitrarie scelte proprio allora, ci appare così reale e tangibile ancora oggi, nonostante sia da ben oltre mezzo secolo che gli scienziati ci vadano ripetendo che la razza è un costrutto sociale. «La razza è spesso usata in modo inappropriato e impreciso dagli scienziati, quindi sì, c'è ancora molto da fare. Tra i lati positivi, la situazione è migliorata negli ultimi anni, con più ricercatori che pensano in modo critico all'uso della razza nella ricerca». In questo, le chiediamo del ruolo giocato dalle riviste scientifiche: «Sono coinvolte nel miglioramento degli standard e della qualità nella scienza, ma c'è anche bisogno che gli organismi di finanziamento garantiscano buone pratiche e che le istituzioni si assicurino che i propri ricercatori non siano impegnati in pseudoscienza o in ricerca scadente. E, naturalmente, anche i giornalisti sono importanti in quanto costituiscono uno dei livelli di tale vigilanza. Ognuno deve fare la propria parte per garantire che il pubblico possa fidarsi degli scienziati».


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