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Ex-rettrice Messa: «I giovani pagano gli anni dell’individualismo»

Già ministro della Ricerca del governo Draghi, a lungo a capo dell'ateneo di Milano Bicocca, la professoressa Maria Cristina Messa ragiona sulle numerose denunce di un clima troppo competitivo nelle nostre università. Uno spirito che però, ormai da anni, viene inculcato nei ragazzi molto prima, spesso nell'infanzia: figlio di una stagione priva di senso di comunità

di Nicla Panciera

Come stanno i giovani e l’Università nel nostro paese? Ne abbiamo parlato con Maria Cristina Messa, monzese, ministra dell’Università del governo Draghi 2021-2022, ordinaria di diagnostica per immagini e radioterapia all'Università degli studi di Milano-Bicocca, ateneo di cui è stata rettrice dal 2013 al 2019 dopo essere stata anche vicepresidente del Cnr.

Lei si è laureata in medicina nel 1986 e specializzata in medicina nucleare nel 1989. Sono in corso i test a medicina per i nati un secolo dopo Jean Paul Sartre, classe 1905. Puntualmente anche quest’anno sono tornate le polemiche sul test, ma spesso la battaglia inizia dopo il suo superamento. Come è stata la sua esperienza?

Ho studiato medicina quando non c'era il numero programmato, entravamo tutti e venivamo ridotti di quasi il 50% al secondo anno, lo scoglio era l’esame di anatomia. Non è stato tutto rose e fiori. Lo stress c'era e andava crescendo perché, al sesto anno, oltre a studiare e a scrivere la tesi si andava in clinica e, dopo la laurea, agli specializzandi non veniva riconosciuto alcun trattamento economico. Ci si arrangiava con le sostituzioni; io ho anche lavorato in un laboratorio di analisi chimiche. Anche la vita lavorativa può essere foriera di stress. Ad esempio per chi sceglie la ricerca, può essere molto difficile e faticoso trovare finanziamenti sufficienti e pubblicare nuovi risultati importanti. Credo che lo stress e le pressioni denunciati recentemente dagli studenti universitari sia legato molto anche all’ambiente incerto in cui vivono.

C’è una difficoltà a vivere il fallimento?

Su questo, c’è molto da lavorare. In altri paesi, sbagliare viene visto anche come un’opportunità di crescita. Da noi, pesa invece un forte giudizio negativo sociale. Bisogna imparare a distinguere sé stessi dalla singola battuta d’arresto. Tutti falliscono. Io ho fallito almeno tre o quattro volte, ma non mi sono fermata.

Per esempio?

Fai un bel progetto di ricerca e nessuna rivista accetta la pubblicazione, oppure non passi un concorso da associato o da ordinario, oppure metti in piedi un bel gruppo di ricerca e questo poi si sfalda.

Mollare non è una cosa da deboli è il titolo del saggio appena pubblicato da Sperling & Kupfer della giornalista premio Pulitzer Julia Keller. Come si pongono i giovani rispetto a questo?

Con «la grande dimissione», che si è vista anche qui da noi, i giovani hanno dimostrato di non accontentarsi, di voler distinguere tra vita professionale e vita personale e di valutare la qualità della seconda almeno quanto la prima. Sono molto più capaci di cambiare strada cammin facendo di quanto non lo fossimo noi, che venivamo dall’Italia del boom economico e del posto fisso e gestivamo la vita da una posizione di sicurezza lavorativa.

Messi nell’arena, qualcuno ce la fa e qualcuno no.

Ovviamente c'è chi ci riesce meglio e chi invece per difficoltà di vario tipo fatica di più. A parità di mezzi, contano molto i tratti caratteriali. Io sono sempre stata molto determinata. Dopotutto, l’apprendimento avviene per tentativi ed errori, non conviene mollare subito.

«Serve il coraggio di mettere in discussione l'intero sistema merito-centrico e competitivo», è uno dei messaggi arrivati dalle proteste degli studenti lo scorso febbraio. È d’accordo?

Instilliamo nei giovani un forte senso di competitività fin dalla più tenera età, basta guardare i criteri per essere ammessi ad alcune scuole superiori. C’è un manifesto giudizio negativo della persona che non vanta la miglior pagella, confondendo spesso il giudizio sulla persona con una valutazione del suo operato. E purtroppo c’e’ una tendenza nella scuola (per un patologico spirito competitivo) di comporre le classi unendo i più ‘bravi’, separandoli da quelli meno ‘bravi’.

È possibile che ciò li porti a ritenere di essere gli unici responsabili dei propri traguardi, positivi o negativi che siano, non riconoscendo il ruolo del contesto e della comunità nel successo del singolo?

In parte, i social e la pandemia hanno peggiorato le cose, ma questi sono stati gli anni dell’individualismo, i giovani dovrebbero recuperare quel senso di comunità e di collettività senza il quale non si va da nessuna parte. Certo, c’è il diritto allo studio, ma ricordo ai ragazzi che contestano il numero minimo di crediti da raggiungere, come vincolo all’ottenimento della borsa di studio, che l’impegno dello Stato per la loro educazione chiede loro (come a tutti) un senso di responsabilità verso la comunità…

C’è una retorica del merito, secondo la quale talento e impegno regalino qualunque traguardo, che si scontra con la realtà della carriera accademica, dove alcune forze in gioco sono sleali dal punto di vista della competizione e della meritocrazia. Non è forse così?

All’estero, esiste discrezionalità nel reclutamento di un ricercatore perché una scelta sbagliata ricade su chi l’ha compiuta. Ma noi non abbiamo questa cultura. Ci affidiamo agli indicatori bibliometrici, come il numero di pubblicazioni, credendo che questo garantisca un metodo di selezione oggettivo, ma in realtà ci solleviamo cosi’ dalla responsabilità della scelta. È un vicolo cieco quello dell’affidarsi a certi parametri: perché non iniziare a premiarne altri, come la didattica o la terza missione? Inoltre, il merito del singolo va comparato con il bisogno dell’istituzione pubblica, perché un ateneo può aver bisogno di un ottimo ricercatore o di un capace insegnante e deve poter scegliere fra questi due. Infine, anche se nei meccanismi competitivi di valutazione i criteri sono trasparenti, il risultato finale non è sempre il migliore, nè per l’istituzione che decide, né per i candidati che partecipano.

Una situazione diffusa: come scrivono Susannze Tauber dell’University of Groningen e Morteza Mahmoudi della Michigan State University, in una lettera all’editore di Nature Human Behaviour, sabotaggio e ostracismo vengono usati per rimuovere la concorrenza.

[sorride] Per prima cosa, non dimentichiamo il valore della ricerca italiana e la sua produzione scientifica che è ancora molto competitiva. La scienza è internazionale, ci si confronta con il mondo. Inevitabilmente, una sana competizione prenderà progressivamente piede, smantellando pian piano quell’atteggiamento di corporativismo accademico così estraneo all’idea di istituzione pubblica.

Poi però chiunque si augura di essere curato dal miglior medico, di essere aiutato dal miglior idraulico. La selezione dei migliori non è moralmente sbagliata. Su questo sono tutti d’accordo?

Sì, ma il sistema può non invogliare a prendere i migliori.

Come scardinare allora il sistema, aggirando le resistenze locali?

Quelle esistono in ogni ambiente di lavoro, non solo nell’università. Ma nella gestione della cosa pubblica ci vuole responsabilità. Basterebbe compiere delle scelte accettandone la discrezionalità sottostante a patto che questa sia manifesta e comprensibile per tutti, cittadini inclusi.

La sua esperienza romana glielo fa ritenere possibile?

Sono stata ministro di un governo non ripetibile, come quello Draghi. Avevamo l’obiettivo di uscire dal covid e fare un progetto forte e serio per il PNRR. Ho viaggiato in tutte le regioni, nelle università e nei centri di ricerca, cui il Pnrr dà un’opportunità, quasi una rinascita, senza precedenti: circa nove miliardi di euro alla ricerca e alla formazione. Un traguardo reso possibile perché quel governo era guidato dall’idea della ricerca come elemento fondamentale e strutturale per il paese.

Rimane la questione di genere. La ricerca sperimentale ha dimostrato che quando le gerarchie maschili vengono spezzate dalle donne, ciò incita a comportamenti ostili in particolare da parte degli uomini con scarso rendimento, perché rischiano di perdere di più.

A questo si aggiunge la conciliazione casa lavoro e la tendenza delle ragazze a voler eccellere in ogni campo, risolvendo tutto e preferibilmente senza delegare. La tendenza dei giovani di mettere sullo stesso piano lavoro e qualità della vita sarà un ulteriore elemento di parità. Il cavallo su cui scommettere in laboratorio o per una presentazione al congresso non è mai la donna perché, si dice, non può, non vuole, non si fa avanti. Il passo indietro delle donne è uno dei fenomeni ancora resistenti purtroppo ..

Cosa dovrebbero fare le università?

Difendo i nostri programmi didattici, ricchi di cultura e di conoscenze generali rispetto agli altri paesi. Tuttavia, alcuni cambiamenti sono auspicabili, tra questi c’è un miglior rapporto docenti/studenti quali-quantitativo; poi, una rivisitazione delle dinamiche didattiche per non sottoporre i ragazzi a seguire lezioni che non danno loro una visione o perlomeno per dare qualcosa di più di quello che troverebbero in un manuale o in internet. Andrebbe risolto, infine, il disallineamento tra l’insegnamento tradizionale e quello del nuovo millennio, ripensando alla nostra anacronistica suddivisione in rigidi settori scientifico-disciplinari, cominciando a ragionare di competenze e puntando sulla multidisciplinarietà e sulla multimodalità della formazione.

La foto in apertura è tratta dal sito dell'Università Milano Bicocca.


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