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Economia & Impresa sociale 

C’è una S da far crescere

La quarta puntata della nuova rubrica di VITA è un dialogo a tutto campo con Matteo Cidda, responsabile comunicazione e sostenibilità di Banco Bpm. Dalle prime esperienze professionali al ruolo nell’istituto di credito. Nel mezzo, sfide enormi. Come l’importanza di lavorare per il territorio e per l'impatto della rivoluzione Esg, soprattutto in ambito sociale: «A patto di non ridurre questi temi a stucchevoli strategie di marketing»

di Nicola Varcasia

«Con una vita professionale abbastanza complicata, il mio tempo libero lo dedico il più possibile a fare il padre». La terza puntata de I volti della sostenibilità, in compagnia di Matteo Cidda, responsabile comunicazione e sostenibilità di Banco Bpm, genovese, da 23 anni a Milano, la facciamo cominciare così. Con una confidenza condivisa in chiusura di conversazione che in un baleno rimette in ordine valori e obiettivi della vita. È un messaggio anche questo. Soprattutto per chi, come lui, è un professionista della comunicazione. E della sostenibilità. Ma, come sempre, conviene partire dall’inizio.

Riavvolgiamo la bobina del suo percorso.

Laurea in legge con indirizzo economico, un anno nell’Arma dei Carabinieri e, per dodici anni, in una società di consulenza, occupandomi principalmente di comunicazione aziendale e finanziaria. Ho seguito anche vari gruppi industriali e grandi progetti di sviluppo immobiliare in cui mi sono accostato ai temi del green.

Quando l’approdo nell’allora Banca popolare di Milano?

Nel 2012, prima come responsabile dell’ufficio stampa, poi della comunicazione e della sostenibilità.

Com’è organizzata la sostenibilità in una grande banca come la vostra?

Con Liana Mazzarella, responsabile della sostenibilità all’interno della direzione in cui opero e da sempre a capo della Csr, abbiamo sviluppato un team molto attivo per proseguire la tradizione, connaturata alla storia di questo istituto di credito, di continuare a occuparsi di queste tematiche, evolute oggi nel famoso acronimo Esg (environment, social, governance).

Qual è la peculiarità del vostro modello di governance della sostenibilità?

La sostenibilità è considerata un elemento talmente trasversale e importante da essere gestita attraverso diversi “cantieri”, coordinati da manager che collaborano su tutte le tematiche più rilevanti della nostra attività, quali: rischio e credito, business, ambiente, rendicontazione, persone e comunità. Per ogni cantiere portiamo avanti una serie di obiettivi che sono integrati e descritti nel nostro piano industriale, visibile a tutti anche sul sito della banca.

Professionalmente parlando, quando ha iniziato a sentire veramente suo il tema della sostenibilità?

Da quando lavoro qui. Ho trovato affascinante il fatto che una banca, un’istituzione che fa credito a famiglie e imprese e che deve creare valore per gli azionisti, abbia inscritto nel Dna e nel proprio statuto il supporto alle comunità e l’aiuto al territorio. Per me, che provenivo dalla consulenza a grandi gruppi industriali e finanziari anche internazionali, non era così comune.

Dov’è la differenza?

Una cosa è fare della beneficienza, il che è un’ottima pratica. Ma un’altra è svolgere il proprio lavoro sul territorio e, proprio in forza di questo legame, riconoscere tra i propri compiti quello di voler dare una mano alle sue specifiche esigenze o, se si vuole, alla S del mondo Esg.

È un cambio di prospettiva?

Alcuni anni fa ho letto il titolo di un documento sul tema degli Esg: si chiamava la nuova rivoluzione digitale. Mi ha fatto pensare. Avendo partecipato con tanti altri colleghi alla c.d. rivoluzione digitale, che ha cambiato completamente la pelle delle aziende e delle banche di tutto il mondo, ho compreso che questo concetto stava producendo una rivoluzione analoga in termini di portata del cambiamento.

Quali sono i protagonisti di questa rivoluzione?

Da una parte troviamo le Istituzioni, i regolatori e le norme, perché occorre ricordare che il mondo Esg oggi è caratterizzato da un elemento normativo molto forte, peraltro in rapida evoluzione. Dall’altra c’è il mercato: clienti ma anche investitori, analisti e agenzie di rating, sempre più interessati. Sono in particolare questi stakeholder a richiedere un’attenzione del management e degli organi consiliari ai temi Esg. Anche in questo senso è una rivoluzione.

Gli obiettivi della sostenibilità non trovano ostacolo nell’attività ordinaria?

Forse questo poteva essere vero cinque anni fa, quando tutti sapevano dell’arrivo di una novità molto rilevante non facile da digerire. Oggi, oggettivamente, il percorso è abbastanza oliato: non sempre, certo, ma in generale tutti sanno ciò che devono fare. Nel nostro caso ci siamo dati degli obiettivi molto chiari che, come accennavo prima, sono stati approvati dal Consiglio di amministrazione e inseriti nel piano industriale.

Ad esempio?

Nell’ambito del business, entro il 2024, i nuovi finanziamenti nel settore green o a basso rischio di transizione dovranno essere più del 65% rispetto al numero complessivo di erogazioni. Un obiettivo già raggiunto è quello di inserire nell’ambito delle politiche creditizie le tematiche Esg. Poi ci sono le attività relative alla parte diversity and inclusion, che prevedono ad esempio oltre il 30% di donne in posizioni manageriali entro il 2024.

Le aziende vostre clienti a che punto sono?

Qualche anno fa registravamo una minor conoscenza del tema. A poco a poco, la consapevolezza è cresciuta e sono molti gli imprenditori perfettamente in grado di destreggiarsi e che hanno investito sulla sostenibilità dei loro impianti. Con il progetto “Esg factory” abbiamo messo a disposizione delle piccole e medie imprese 1500 ore di formazione per spiegare i cambiamenti in atto che impattano sull’attività dal punto di vista della sostenibilità.

Qual è la sfida che sente più aperta rispetto al mondo Esg?

Quella di far percepire sempre più il valore della S (social), cioè quanto sia importante, affinché il sistema stia in piedi, avere aziende e banche che si interessino del benessere del loro territorio e dei propri dipendenti. È una parte che il mercato forse non guarda ancora con la sufficiente attenzione ma a mio avviso è importantissima.

Perché?

Se le aziende non si interessano abbastanza del benessere delle persone e del proprio territorio, si possono fare tutti gli investimenti sostenibili del mondo, però le criticità emergeranno ugualmente. La valorizzazione della S è fondamentale.

Lei si occupa di sostenibilità e di comunicazione, secondo lei il tema è percepito correttamente dal pubblico?

Vorrei essere molto chiaro su questo. Se si crede davvero nella sostenibilità, bisogna smetterla di inserirla in ogni slide, in ogni pubblicità, in ogni intervista. Perché poi la gente si stanca e diventa tutto troppo retorico. Bisogna rallentare la sovraesposizione della tematica ed evitare che un certo marketing della sostenibilità renda tutto banale.

È questo il green washing?

Il fenomeno del washing è qualcosa di ancora più grave: è sbandierare una tematica ambientale o sociale senza una reale concretezza o millantando, spesso per coprire un’altra situazione problematica interna all’azienda. Ma qui entriamo nel campo dei comportamenti palesemente scorretti. Io mi riferisco in questo caso a qualcosa di meno pesante, ma ugualmente dannoso, che è l’eccesso di comunicazione sulla sostenibilità, che può riguardare anche chi la persegue in modo pulito e trasparente.

Cosa suggerisce?

Di parlarne principalmente in relazione a specifici progetti, a numeri e con strumenti di rendicontazione: prendendosi responsabilità concrete e impegni verificabili in tempi certi e pubblicamente riscontrabili. Credere nella sostenibilità significa anche averne rispetto: praticarla con approccio scientifico, facendo attenzione a non esibirla troppo, per non distruggerla.

Un obiettivo che vorrebbe contribuire a raggiungere nel suo lavoro?

Torno al tema dell’inizio, che è la mia idea di fondo: posto il dovere di fare bene ciò che gli obblighi normativi e il mercato richiedono, ritengo fondamentale far emergere sempre di più il ruolo della “S”, l’impegno sociale. In questo, diverse banche e imprese italiane hanno una marcia in più.

Ci può fare un altro esempio?

Citerò un’iniziativa, se volete microscopica, ma per me significativa. Ogni partner che si propone a Banco Bpm per una sponsorizzazione locale o nazionale dovrà destinare una parte del contributo eventualmente ricevuto a progetti sociali sul territorio. È un piccolo esempio di come si possa fare Esg anche con la comunicazione o il marketing.

Chiudiamo con una provocazione: è giusto che ad occuparsi di sostenibilità Esg sia la comunicazione?

Giusta domanda. Rispondo con la nostra esperienza sul campo. La comunicazione è trasversale. Per forza di cose deve mantenersi in relazione con tutti i gangli dell’organizzazione aziendale e dare, velocemente, risposte chiare e verificabili. In secondo luogo, la sostenibilità va spiegata a tutti gli stakeholder, dai clienti agli investitori istituzionali, dai dipendenti agli stessi media e occorre gestire questo processo in modo razionale e condiviso, ma comprensibile. Infine, chi fa comunicazione è abituato ad assumersi responsabilità pesanti, perché siamo la voce e il volto dell’azienda che rappresentiamo. Per questo credo sia la scelta giusta per coordinare la sostenibilità: sempre cum grano salis.


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