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Don Puglisi, quando la mafia ebbe paura di un parroco

Ucciso dalla mafia nel settembre 1993 e beatificato il 25 maggio 2013, la figura di don Pino Puglisi è stata ricordata dall’arcivescovo di Palermo Corrado Lorefice e dal presidente del Tribunale dello Stato della Città del Vaticano Giuseppe Pignatone, che in quegli anni faceva parte della Direzione Distrettuale Antimafia

di Fabrizio Floris

Sono passati 30 anni dalla morte di don Pino Puglisi e 10 dalla sua beatificazione, il 25 maggio 2013, ma la sua figura continua ad essere uno specchio attraverso cui guardarsi. Ma perché la mafia aveva paura di un parroco tanto da decidere di condannarlo a morte? Per capirlo – ha spiegato l’ex procuratore Giuseppe Pignatone al Salone del Libro di Torino in un affollato incontro dal titolo «La mafia ha paura di gente così. Pino Puglisi. Credere significa dare la vita» – dobbiamo inquadrare quel momento storico e partire da un anno in particolare: il 1977. Perché fino a quel momento la mafia siciliana (e le altre mafie) avevano avuto come caratteristica la convivenza con lo Stato. Era una precisa strategia: le mafie riconoscevano il primato dello Stato e di contro le istituzioni non agivano con tutti gli strumenti utili ad estirparle. Ma nel 1977 arrivano a capo della mafia siciliana i corleonesi (Liggio, Provenza, Riina….) che cambiano strategia e iniziano ad ammazzare gli uomini delle istituzioni: decine di persone tra forze di polizia, magistrati, politici. Anche l’interno dei clan viene meno la convivenza: vengono uccise oltre mille persone nella guerra interna tra le famiglie mafiose che sancirà la vittoria dei corleonesi.

Poi arriveranno anche le stragi degli anni ’90. Sono tutte azioni violente che hanno un filo comune: la strategia della mafia di voler prevalere sullo Stato: non vogliono più convivere. Questo probabilmente perché le cosche che in quegli anni controllavano il traffico di eroina dall’Afghanistan verso mezzo mondo avevano accumulato tanti soldi e non dipendevano più (economicamente) dalla politica. «E poi c’è il fatto che negli anni ‘70 lo Stato era prevalentemente impegnato nella lotta contro il terrorismo. I mafiosi pensavano, ma se i terroristi che sono “4 gatti” sono in grado di mettere in difficoltà lo Stato, noi che siamo tanti e organizzati possiamo mettere in ginocchio lo Stato. Noi che eravamo lì in quegli anni avevamo, – prosegue Pignatone – la sensazione netta era che la vita umana non avesse più valore. Il Papa (Giovanni Paolo II, ndr) ad Agrigento aveva pronunciato quelle parole: “questi che portano sulle loro coscienze tante vittime umane, devono capire, devono capire che non si permette uccidere innocenti! Dio ha detto una volta: “Non uccidere”: non può uomo, qualsiasi, qualsiasi umana agglomerazione, mafia, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio! Qui ci vuole civiltà della vita […]. Convertitevi. Una volta verrà il giudizio di Dio”». Sono parole che non sono state pronunciate al vento e non sono rimaste in aria, pesano sia sulla società civile, ma anche sui mafiosi il cui risentimento si manifesta subito: il 27 luglio 1993 vengono messe le bombe in San Giovanni in Laterano e poi il 15 settembre c’è l’omicidio di don Pino Puglisi. Come spiegano diversi collaboratori di giustizia, la Chiesa viene attaccata perché si sta esprimendo contro la mafia, il messaggio è “non interferire”. In questo contesto viene ucciso padre Pino Puglisi perché potremmo dire che è uno che interferisce: «si porta i picciriddi», sottrae manodopera alle cosche.

Ma don Puglisi, racconta monsignor Corrado Lorefice, non era un prete antimafia: è un martire. Infatti don Pino per la Chiesa è stato ucciso in odium fidei. Così la chiesa dice che quel mondo (la mafia) è antitetico al Vangelo. Per don Puglisi la storia è un luogo teologico dove si ascolta il parlare di Dio. La sua visione è di una comunità cristiana che assume i vissuti del territorio. Deve annunciare un Vangelo che deve arrivare all’uomo intero nella sua appartenenza ad una città umana che ha delle ferite perché c’è un’organizzazione (la mafia) di potere e non è lo Stato. Ha questa attenzione alla storia e alla dimensione educativa. Don Puglisi arriva come parroco a Brancaccio nel 1990 e viene ucciso nel 1993 dopo neanche tre anni. Salvatore Gricoli (uno dei killer) nel 1998 dice: «dovevamo simulare che era la rapina di un tossicodipendente. Spatuzza, infatti, gli prende il borsello e dice “parrino questa è una rapina”. Si girò e disse con un sorriso “me l’aspettavo”». Don Puglisi sa che il suo posto è lì (c’erano stati attentati ai suoi collaboratori nelle settimane precedenti). Al centro per i giovani da lui fondato dal nome di Padre Nostro. Siate figli liberi. «Non si può combattere il potere con il potere, ma con la debolezza della croce».



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