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Rammendare le città per rammendare le famiglie

di Marco Percoco

Noi siamo chi conosciamo, ma siamo anche in base a come viviamo nel nostro ambiente quotidiano.

Non è un pensiero filosifico, ma solo una compressione linguistica per intendere la rilevanza delle relazioni sociali e dell’ambiente costruito sullo sviluppo dell’uomo. Potrà sembrare una ovvietà, ma se volgiamo lo sguardo alla storia delle nostre città nel recente passato, ci rendiamo conto subito di come le grandi periferie siano state concepite esclusivamente come “ambiente costruito” con poca attenzione al benessere delle persone pure chiamate a vivere, quasi ad animare, quei manufatti di cemento, ferro e vetro.

Gli anni ’50 e ’60 sono stati decenni di rapida urbanizzazione, con flussi di centinaia di migliaia di persone che abbandonavano le campagne per riversarsi nelle aree metropolitane, spesso settentrionali. La costruzione di alloggi per i nuovi arrivati non sempre riusciva a mantenere il ritmo serrato con cui gli emigranti giungevano in città. Fu questo, dunque, il periodo in cui il governo italiano e le giunte comunali vararono piani di costruzione di imponenti periferie per dare sfogo alla pressione demografica della domanda. In quel periodo, si misero in atto azioni per aumentare l’offerta di alloggi, anche a scapito della “qualità sociale” dei quartieri.

Di certo, va detto, tale approccio alla questione abitativa non fu una caratteristica confinata solo a quel periodo storico, ma anzi si perpetuò nel tempo. E bisogna pure evitare di pensare che quelle politiche abitative, fore più improntate alla quantità che alla qualità, furono una scelta sbagliata. Offrire una casa agli emigranti non può essere ritenuto un errore, è stato, invece, un atto di responsabilità e di cura del tessuto sociale delle città.

Ora, però, è venuto il momento di impegnarsi nuovamente a fondo per riqualificare le periferie che ci circondano e non per appagare il gusto per il bello, non per uniformarle a bizzarre forme di edonismo post-moderno, ma per questioni di equità e di coesione sociale.

Come ho già scritto in altri post, l’Italia, insieme a UK e USA, è uno dei paesi ove più bassa è la mobilità economica intergenerazionale, ovvero è un paese ove i figli riescono a fare meglio dei padri, almeno economicamente, con probabilità inferiore rispetto agli altri paesi europei.

Un recente studio condotto negli USA da Chetty e Hendren ha mostrato chiaramente come la qualità del quartiere in cui i bambini crescono ne determina in maniera significativa il progresso sociale ed economico rispetto ai genitori. La figura mostra, infatti, i guadagni in termini di reddito quando una famiglia si trasferisce da un quartiere disagiato in uno più ricco economicamente e di relazioni. Si vede come l’effetto, sempre positivo è drammaticamente elevato per i bambini in grado di spostarsi prima dei 10-15 anni.

Naturalmente, non è necessario spostare le persone per sortire effetti positivi, basterebbe rendere più vivibili i quartieri invece svantaggiati.

E’ ragionevole pensare che una tale dinamica sia presente anche in italia, così che la riqualificazione dlele periferie si configurerebbe non solo come un mero intervento urbanistico, ma anche come un’azione con un chiaro intento sociale di redistribuzione del reddito.

Il piano delle periferie messo in atto dagli ultimi due governi è certamente un’occasione importante, ma temo sia un intervento troppo modesto, date le dimensioni del problema.


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