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La riforma in mezzo al guado… tra Roma e Bruxelles

di Alessandro Mazzullo

La riforma del Terzo Settore sembra sempre più nel pantano.

Il 29 gennaio 2020 il Consiglio di Stato ha sospeso il parere (n. 248 del 2020) interlocutorio richiestogli in merito allo schema di decreto concernente l’individuazione di criteri e limiti delle c.d. attività diverse (art. 6 del codice del terzo settore).

La sospensione è motivata soprattutto in base alla necessità di rispondere ad un interrogativo, per la verità, ampiamente diffuso e condiviso.

Che fine ha fatto la famosa autorizzazione della Commissione europea sulle disposizioni fiscali del codice del Terzo settore?

A quasi 3 anni di distanza dall’approvazione del codice, e a pochi mesi dall’operatività del Registro unico nazionale, pare che tale autorizzazione non solo manchi, ma non sia stata nemmeno richiesta.

Il problema non è marginale, ma centrale. Non è formale, ma sostanziale. Non è soltanto tecnico, ma politico.

Vediamo di spiegare il perché.

In primo luogo, va tenuto presente che da quell’autorizzazione dipenderà la tenuta dell’intero impianto della riforma e non soltanto della parte fiscale. Quest’ultima, infatti, rappresenta la ragione principale della stessa qualifica di ets. Come giustamente e implicitamente considerato dal Consiglio di Stato, non ha senso ragionare dei limiti delle c.d. attività diverse se non ne è chiara la rilevanza fiscale, unitamente a quella delle attività di interesse generale (di cui all’art. 5).

Capovolgendo la prospettiva, per un ente, non ha senso iscriversi al Registro se a tale atto conseguono tanti oneri e ben pochi onori.

Ma in gioco vi è di più, molto di più! Non vi è soltanto la tenuta dell’attuale riforma, ma anche quella della normativa pregressa e riformata.

Chiedere a Bruxelles di autorizzare quello che sarà, infatti, equivale ad accendere un enorme riflettore su quello che è stato!

E gran parte del regime agevolativo pregresso non è mai stato autorizzato perché, all’epoca, non ve ne era la necessità. E forse è questa la maggiore e legittima preoccupazione di quanti stanno lavorando al dossier da inviare a Bruxelles.

Il problema, inoltre, non è soltanto tecnico ma politico.

La questione delle attività di autofinanziamento, dei loro limiti e degli stessi dubbi sollevati dal MEF, investe la visione di fondo del Terzo Settore che vogliamo.

Il vero spartiacque della riforma del 2017 è stato sdoganare il concetto che “non profit” non significa “no profit”, ma “not for profit”! Che ciò che conta per essere un ente del Terzo Settore è il fine (sociale) a cui sono destinate le proprie risorse, anziché il modo di procurarsele.
La riforma, almeno in una delle sue tante anime, ha cercato di fare proprio questo: consentire a tali enti di finanziare le proprie attività di interesse generale (e non le proprie tasche), anche attraverso lo svolgimento di attività commerciali; soprattutto in un periodo in cui i rubinetti delle donazioni pubbliche e private sembrano sempre più stretti.

Tuttavia, anche sotto questo aspetto, la riforma è rimasta in mezzo al guado. Il suo slancio è stato smorzato da quelle disposizioni che, per converso, hanno imposto che tali attività fossero quantitativamente secondarie rispetto a quelle di interesse generale. Come a dire: potete anche guadagnare qualche soldo in più (oltre alle donazioni) per perseguire i vostri meritevoli scopi, purché non esageriate! La ratio recondita di tale preoccupazione? Evitare di pestare i piedi a chi le medesime attività commerciali le svolge a scopo esclusivamente lucrativo.

Peccato che anche questo obiettivo di tutela della concorrenza non sia affatto perseguibile attraverso i predetti lacci e lacciuoli. Ancorare il concetto di strumentalità e secondarietà delle “attività diverse”, com’è accaduto nello schema di decreto sottoposto al Consiglio di Stato, ad una percentuale di quanto ricavato dalle attività di interesse generale o del costo complessivo dell’ente, equivale a lasciare margini amplissimi di fatturato commerciale agli enti strutturalmente più grossi.

E lo stesso errore lo si è compiuto con la scelta nefasta condensata nell’art. 79 del codice. Non è un caso che sia proprio questa la norma più travagliata e modificata dell’intero codice. L’aver continuato a incasellare gli ets dentro la categoria logora degli enti commerciali e non commerciali è frutto del medesimo equivoco di fondo. Se il criterio, ancora una volta, rimane quello quantitativo della percentuale dei proventi da attività commerciale rispetto a quelli da attività non commerciale (ad es. donazioni), laddove un domani quella autorizzazione arrivasse davvero, avremmo ets non commerciali in grado di fatturare milioni di euro ed ets definiti commerciali, seppur con un fatturato di poche migliaia di euro, a fronte di donazioni di poco inferiori.

Il vero nodo, pertanto, non sta nel “cosa” ma nel “perché” un ets fa quello che fa.

È su questo solco che corre la vera e profonda linea di demarcazione tra non profit e for profit. Lungo questo solco corre anche la distanza incolmabile tra due mondi che potrebbero anche svolgere le medesime attività commerciali, senza mai essere assimilabili sul piano competitivo. Ecco perché è infondata, a monte, la stessa preoccupazione di una concorrenza indebita tra Terzo e Secondo Settore (o Mercato).

Non mi stancherò mai di dire che, tra due enti che perseguono fini diversi (lucrativo e di interesse generale), pur svolgendo la medesima attività commerciale (vendita di magliette), questa uguaglianza non può sussistere!

Sul piano della capacità contributiva (art. 53 Cost.), inoltre, la for profit potrà solo concorrere, con le proprie tasse, a rifondere alcune delle spese dello Stato; ma non ad abbatterle, a monte, come nel caso delle non profit che svolgono attività di interesse generale, poste altrimenti a carico dello Stato e, probabilmente, con costi e inefficienze anche superiori.

Ecco perché la partita è politica. Perché in gioco vi è la stessa visione di Welfare society e di Economia sociale di mercato che l’Europa, prima ancora dell’Italia, vorrà darsi.

Per superare l’impasse, che probabilmente blocca quella richiesta di autorizzazione da 3 anni, aiuterebbe molto quanto annunciato dall’allora Commissario europeo M. Barnier, in scadenza di mandato, ormai 7 anni fa: un pacchetto di norme speciali in materia di aiuti di Stato al Terzo Settore e di imprenditoria sociale!

Ma per far questo, occorre prima chiarirsi le idee su questa visione. Molte delle norme che vediamo, invece, sembrano solo il frutto di una visione compromissoria e confusa che non lascia ben sperare.

Photo by Aubrey Rose Odom on Unsplash


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