Educazione

A scuola di debate, nonostante Charlie Kirk

Charlie Kirk ha costruito il successo suo e della sua Turning Point su un format che negli States ha una lunghissima tradizione: il debate. Lo ha fatto polarizzando il confronto, dove la vittoria coincide con lo zittire l'altro. Il debate però - ossia lo sfidarsi a suon di argomentazioni pro e contro una tesi - resta prima di tutto un allenamento al confronto, dove non vincono gli slogan o le opinioni personali ma la forza delle idee. In Italia sono più di 700 le scuole che lo praticano: allena il pensiero critico, la tolleranza, l'empatia, la cittadinanza. Ecco dove e perché

di Sara De Carli

tributo a Charlie Kirk
associated Press / LaPresse

C’è un articolo da leggere, tra i tanti che sono stati scritti dopo che, mercoledì scorso, Charlie Kirk è stato ucciso durante un comizio nello Utah. È su Vox, a firma di Christian Paz e si intitola “How Charlie Kirk remade GenZ”. Racconta l’onda di contenuti postati sui sociali dai giovanissimi in questi giorni, anche da parte di ragazzi che mai prima avevano scritto un contenuto che avesse anche lontanamente a che fare con la politica o l’attualità. L’analisi di Vox collega il tutto al fatto che di Kirk i ragazzi americani hanno apprezzato soprattutto il suo “non sottrarsi” al parlare apertamente, anche di temi controversi.

L’America, come noto, ha una lunga tradizione di “debate”, un’arte oratoria che si allena anche a scuola, con due squadre chiamate a sfidarsi – i confronti sono chiamati proprio “tornei” – portando argomenti pro e contro ad una determinata tesi. Nulla di nuovo sotto il sole: basta andare con la memoria alla retorica di Aristotele o alle arti del trivium del Medioevo. La novità se così vogliamo dire (ma non c’è nulla di diverso nei talk show televisivi) è che più la questione è divisiva, meglio è.

Nel 2012 Kirk ha fondato assieme a Bill Montgomery l’associazione Turning Point USA e in pochissimo tempo è diventato uno dei creator più virali e influenti d’America: 3 milioni di iscritti su Youtube, 5 su X e 7 milioni su Instagram. «A farne la fortuna, il format che potremmo chiamare “Uno vs tutti”. Semplice, vecchio e sempre efficace», scrive ora Francesco Oggiano, uno di quelli che in Italia ne ha seguito e analizzato più da vicino l’ascesa. Il format, in sintesi, è questo: «Lui che si piazza con un banchetto fuori dai campus e invita gli studenti progressisti a sfidarlo su tematiche d’attualità. Quindi parte lo scambio (a volte scontro) verbale, ripreso in split screen. I temi, i più disparati purché polarizzanti: Metoo, Black Lives Matter, armi. E ovviamente le posizioni estremiste e controverse. Il format funziona. Kirk diventa una delle voci più amate dai Repubblicani. Quando Trump viene rieletto non cerca incarichi. La sua ambizione, scrive il NYimes, “è molto più grande: rimodellare il Partito Repubblicano e la politica americana stessa”». Nulla di nuovo, ma di fatto negli ultimi anni su YouTube i dibattiti polarizzati hanno subito un’impennata (vedi ancora Vox in un bellissimo approfondimento).

Anche nel momento in cui è stato ucciso, Kirk stava facendo un incontro di questo tipo, con il format “Prove Me Wrong Table”, cioè “Vieni al tavolo e dimostrami che ho torto”.

GenZ: polarizzati o fluidi?

Oggi, dopo l’assassinio di Kirk, molti ragazzi della GenZ scrivono che «anche se non erano d’accordo con tutto ciò che ha detto, hanno comunque rispettato il fatto che la conversazione abbia avuto luogo». È forse questo il punto decisivo, in un momento storico in cui i giovani danno più importanza che mai alla libertà di parola. Vox cioè suggerisce che «parte della frustrazione dei giovani nei confronti dello status quo, dei leader e delle generazioni più anziane, compresi i dirigenti universitari, i politici o altri attivisti, deriva dalla sensazione che “abbiano paura di affrontare certi argomenti”». D’altra parte la Generazione Z – scrive sempre Vox – «non è disposta a essere definita in categorie ideologiche o partigiane ben definite. I giovani non vogliono essere incasellati da una parte o dall’altra, hanno sfumature nelle loro convinzioni, possono prendere un po’ da questo punto di vista e un po’ da quello, e vogliono ascoltare e mettere in discussione le loro posizioni».

La Generazione Z non è disposta a essere definita in categorie ideologiche o partigiane ben definite. I giovani non vogliono essere incasellati da una parte o dall’altra, hanno sfumature nelle loro convinzioni, possono prendere un po’ da questo punto di vista e un po’ da quello, e vogliono mettere in discussione le loro posizioni

Rachel Janfaza, scrittrice e ricercatrice, intevistata da Vox

Insomma, rivendicano il diritto di cambiare idea e forse anche di non avere un’idea precisa, in quella fluidità e liquidità che segna in maniera pervasiva tutta la loro esistenza, dove tutto è reversibile e provvisorio. «Kirk ha creato un luogo dove questo è possibile», scrive Vox.

Insomma, la domanda diventa: Charlie Kirk piace alla GenZ perché la GenZ è polarizzata e sta tornando alle ideologie o all’opposto perché la GenZ è deideologizzata e fluida e ama il confronto-scontro perché prende un po’ di qua e un po’ di là? È un buon topic per un debate.

È interessante rifletterci se non altro perché così “altra” da quella più ovvia per cui Charlie Kirk è stato sì un campione, ma della radicalizzazione e della ideologizzazione e che i suoi banchetti hanno messo in scena non dei confronti per capire le ragioni dell’altro ma dei match per zittire l’altro.

Più di 700 scuole in Italia fanno debate

«Per capire cosa faceva Charlie Kirk bisogna conoscere una cosa molto americana», scrive Il Post, e cioè «il ruolo del debate nei college, che hanno esasperato la polarizzazione attraverso la sopraffazione dialettica».

Ma davvero il debate, si cui oggi si parla tanto proprio in quanto così connesso alla tragica vicenda di Charlie Kirk, è (soltanto) questo? Sfida, abilità retorica, sopraffazione dell’avversario? No, non lo è. C’è anche una dimensione meno conosciuta del debate, come strumento formativo. Di più: come strumento per costruire cittadinanza.

Non tutti forse sanno che anche nelle scuole italiane si fa debate, e non da oggi. La rete Avanguardie Educative di Indire nel 2016  l’ha inserito fra le “idee” che possono rivoluzionare la didattica (qui la pagina dedicata, con tutti i materiali): oggi sono circa 700 scuole che la stanno mettendo in pratica, in particolare in Campania (89), Toscana (72) e Lombardia (71). L’idea è seconda per adozione solo alla flipped-classroom. Esiste anche la rete We Debate, che ha l’ITE Tosi di Busto Arsizio (VA) come capofila: raduna oltre 270 scuole in Italia e dal 2017 organizza i Campionati Italiani di Debate.

Zittire l’altro nel debate non esiste. Non esiste l’offesa, non esiste attaccare la persona anziché confutare le sue idee, che è una delle fallacie logiche più diffuse

Daniela Paone, docente di italiano

Il debate che si fa nelle nostre aule c’entra con il format che ha reso celebre Kirk? Spoiler: la risposta è no. Daniela Paone, docente di italiano al Liceo Bertolucci di Parma studia e pratica il debate da almeno dodici anni, è formatrice per questa metodologia didattica ed è tra le esperte di Avanguardie Educative. «Conosco poco l’esperienza di Turning Point USA e non mi voglio avventurare in valutazioni sociologiche o politiche che non mi competono. A noi interessa il debate come strumento didattico e formativo. In quest’ottica a me sembra che la differenza più grossa sia l’assenza di contraddittorio. Zittire l’altro nel debate come lo intendiamo noi non esiste. Non esiste l’offesa, non esiste attaccare la persona anziché confutare le sue idee, che è una delle fallacie logiche più diffuse», afferma decisa la professoressa.

La forza persuasiva delle idee

«Il debate è un confronto leale tra due squadre, su argomenti controversi, ma non per affermare slogan o per dire “sono d’accordo con te”: bisogna spiegare, argomentare e motivare tutte le posizioni. Lo scopo è mostrare che una questione controversa può essere affrontata da diverse posizioni, che hanno ragioni valide. Implicitamente, ma nemmeno troppo, significa capire che anche chi la pensa diversamente da me può avere valide ragioni. In questo senso il debate insegna a ragionare in maniera aperta, con disponibilità dinanzi alle idee altrui. È un modo per imparare a diventare cittadini in uno spazio protetto: non hai la responsabilità di prendere una decisione su una scelta controversa, ma “ti alleni” a vederne la complessità», dice Paone.

Lo scopo è mostrare che una questione controversa può essere affrontata da diverse posizioni. Implicitamente, dal punto di vista educativo, significa capire che anche chi la pensa diversamente da me può avere valide ragioni

Daniela Paone, docente di italiano

Le regole del debate

Come funziona allora concretamente il debate? Le scuole italiane utilizzano un protocollo preciso, il “The World Schools Debate Format”  che prevede una sfida tra due squadre di tre membri. A tema c’è una “mozione”, che ovviamente deve presentare elementi di controversia. Una squadra porterà argomenti in favore della mozione, l’altra contro. «Le due squadre si preparano prima sul tema, senza sapere quale delle due parti dovranno sostenere», precisa la professoressa Paone. «Questo significa che entrambe le squadre devono approfondire l’argomento in tutti i suoi aspetti, per essere pronte a sostenere sia le tesi a favore sia quelle contro, individuando con onestà gli argomenti più forti per sostenere sia l’una che l’altra posizione. Anche chi parte avendo una posizione sul tema, impara a verificare, argomentare, rendere solida la propria posizione non solo per “tifo” ma con argomentazioni».

Poco prima della sfida, ogni squadra scopre qual è la posizione che deve sostenere: a favore o contro. A quel punto inizia la tenzone. Ciascuna squadra ha a disposizione tre round di 8 minuti, più una replica finale di 4 minuti. Ovviamente alla scuola primaria e alla secondaria di primo grado (il debate si fa anche lì) il format è più breve.

C’è un collegio di giudici, in numero dispari: sono lì per analizzare dettagliatamente il dibattito e spigare cosa ha funzionato e cosa può essere migliorato, più che decretare il vincitore. «È un ruolo educativo delicato, dialogare con i debater per aumentarne la motivazione», dice Paone. Il vincitore? Quello che ha argomentato meglio, secondo tre indicatori: il contenuto (idee, ragionamento, ricerca); lo stile (incluso il linguaggio non verbale e paraverbale); la strategia (che riguarda soprattutto la valutazione del gioco di squadra).

Il giuramento del debater

Non valgono gli attacchi personali, non vale zittire, non vale spostare la discussione sul piano delle opinioni. «C’è una sorta di “decalogo del debater”, un codice deontologico elaborato da Alfred Schnider, che era un professore del Vermont che ha lavorato molto su questo e ha fondato un’accademia in Slovenia: c’è il rispetto di se stessi e degli altri, l’idea che si va a dibattere solo essendosi preparati e avendo fatto ricerca, non basandosi su effetti retorici ma sulla solidità degli argomenti. Non si portano solo contenti in astratto ma si cercano prove, evidenze, pareri autorevoli che riportino alla concretezza».  

I ragazzi apprezzano la possibilità di essere protagonisti del percorso, il fatto che si scardinino le “solite” dinamiche di classe, la possibilità di essere sorpresi dai talenti nascosti di alcuni compagni. Lo spirito competitivo? Certo ed è quello che dà pepe, «ma la competizione non è mai l’obiettivo».

E gli argomenti proposti? La professoressa ricorda debate «bellissimi» sull’opportunità o meno di costituire degli Stati Uniti d’Europa, oppure di avere o non avere un esercito comune europeo, «ma all’inizio del percorso va benissimo discutere anche di un’ordinanza del sindaco, il punto è affrontare un argomento del dibattito pubblico cercando una soluzione che non si chiude ma resta sempre aperta al confronto. È allenare i ragazzi in un percorso che porti a formulare una decisione senza lasciarsi guidare dalla tifoseria o da quel che “penso io”. È quel dovrebbe accadere in un confronto parlamentare ben condotto. Una gara che vive in una dinamica di argomentazione e confutazione reciproca, rispettosa e pacifica, dove la vittoria non si ottiene con espedienti retorici – certo, in parte conta anche il movere ciceroniano – ma sulla forza persuasiva delle idee», conclude la professoressa.

Andare oltre le echo chamber

Elena Mosa e Silvia Panzavolta sono le ricercatrici Indire esperte di debate. «Il debate non c’entra niente con la prospettiva di schiacciare l’avversario per imporre le proprie idee», dice Silvia Panzavolta. «Anzi, a dire il vero non ha niente a che fare nemmeno con le proprie idee, visto che si tratta di argomentare portando le motivazioni pro e contro a prescindere da ciò che uno pensa e da convinzioni personali che – lo sappiamo – spesso sono influenzate dalle nostre echo chambers e dai gruppi sociali che frequentiamo. Nel debate non si discute di opinioni personali, ma di posizioni: è una palestra di prospettiva».

Le convinzioni personali spesso sono influenzate dalle nostre echo chambers e dai gruppi sociali che frequentiamo. Nel debate non si discute di opinioni personali, ma di posizioni: è una palestra di prospettiva

Silvia Panzavolta, ricercatrice Indire

Per Elena Mosa, la ricerca ha mostrato che «il debate è un gioco serio, finalizzato ad assumere una prospettiva che non coincide con la tua opinione. Allena e potenzia tutte le competenze chiave e educa a farsi una propria opinione, più informata. Ci sarà chi resta della propria opinione, magari con meno polarizzazioni perché si sono colte più sfumature e chi cambierà opinione. Ma è un metodo rigoroso, che allena l’utilizzo delle fonti, il pensiero critico, la tolleranza, l’empatia… In alcune ricerche abbiamo valutato anche l’impatto del debate in chiave inclusiva, raccogliendo osservazioni molto promettenti».

In foto, tributo a Charlie Kirk in Bristol. Associated Press / LaPresse 

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