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Guerre

James Bevan: «Dall’Isis all’Africa la mia vita da segugio nel mercato delle armi»

di Redazione

Il direttore del Conflict Armament Research (CAR) è uno dei massimi esperti indipendenti sul mercato delle armi. Lo abbiamo incontrato: «La gente parla e dice che ci sono flussi di armi che entrano in Siria e Iraq ma se vuole fare qualcosa deve capire come, dove, quando e in che volume queste armi arrivano a destinazione. Noi collezioniamo tutti i dettagli necessari per un serio ed efficace policy-making e li mettiamo al servizio di tutti»

Anche chi non è avvezzo a domandarsi mille perché sui grandi temi e i lunghi e terribili conflitti che, ieri come oggi, stanno colpendo tante popolazioni inermi in giro per il mondo, si sarà reso conto che la posta in gioco è sempre più alta di quella che si vuole dare a vedere. Che una guerra all’apparenza locale è in realtà frutto di una combinazione di forze e interessi interni ed esterni, e che l’avvicendarsi di dinamiche uguali e contrarie, in paesi vicini e lontani, contribuisce a creare una visione, soprattutto politica, sempre più precisa su scala globale.

Ecco perché monitorare i flussi di armi illecite. Come spiega James Bevan, Direttore del Conflict Armament Research (CAR), un’organizzazione di Londra sovvenzionata dall’Unione Europea e impegnata nel tener traccia delle armi usate in zone di conflitto, “Le armi sono spesso l’unica evidenza fisica di relazioni e dinamiche tra i diversi gruppi coinvolti”, e sono il punto di partenza e di arrivo per gran parte delle attività illegali che gravitano attorno alle parti in lotta.

Ancora, il traffico di armi illecite alimenta guerre civili e conflitti regionali, rifornisce gli arsenali di gruppi terroristici, cartelli della droga e altri gruppi armati, e contribuisce alla proliferazione di crimini violenti e tecnologie sempre più sofisticate. Ma se all’interno di una sottocategoria così ampia come quella delle armi piccole e leggere, che conta all’incirca 875 milioni di esemplari globalmente, si sa solo che il 75 per cento delle armi da fuoco (come fucili, pistole e armi da fianco) appartiene a civili, poco altro, come riporta il centro di ricerca Small Arms Survey di Ginevra, è noto dei passaggi di mano delle maggiori armi convenzionali, tra cui ordigni esplosivi improvvisati (IED), carri armati e veicoli militari, e aerei da guerra.

VITA si è rivolto a Bevan per capire l’evoluzione del suo percorso professionale, a partire dagli anni da studente di Relazioni e Politica internazionale presso l’Istituto di Laurea Specialistica di Studi Internazionali e sullo Sviluppo di Ginevra, a faccia a faccia con alcuni dei più drammatici, e spesso scarsamente riportati, drammi del nostro secolo e i suoi maggiori interpreti. In un mondo sempre più contrassegnato da guerre gestite da altri, si è cercato di capire con lui, come e perché il suo lavoro sia ogni giorno di più fondamentale.

E’ possibile tracciare una linea rossa tra la sua carriera accademica e quella professionale?Nonostante il mio interesse inizialmente fosse più concentrato sugli affari internazionali, ho ricevuto diverse lezioni di studi sulla sicurezza – dall’impatto dei conflitti nello sviluppo dei paesi e agli studi di guerra applicati alle diverse insurrezioni. Ad aver influito sulle mie scelte è stato il periodo in cui si sono tenuti i miei studi, tra la fine degli anni ‘90 e i primi 2000, e quindi in corrispondenza con la fine dei grandi conflitti africani del secolo scorso. Mi riferisco alle guerre in Costa d’Avorio, Liberia, Sierra Leone e Angola, ad esempio, combattute senza armi convenzionali di grosso calibro e invece con piccole armi che potevano essere facilmente trasportate. Per la prima volta le armi erano nelle mani di attori non statuali, e questo ha provocato uno stravolgimento nel modo di pensare a livello internazionale: non ci si doveva più soffermare solo sul ruolo delle grandi potenze– come si era soliti fare durante la Guerra Fredda – ma dare il giusto peso a gruppi e fazioni in lotta e alle piccole armi, pistole e machete in loro possesso. Nel 1996, poco prima di iniziare l’università, decisi di fare l’auto-stop attraverso tanti paesi dell’Africa Occidentale e posso dire che quell’esperienza mi dette un primo assaggio di cosa stava succedendo nell’area…

Com’è stata la sua prima esperienza lavorativa a Small Arms Survey (SAS) – centro di ricerca specializzato in piccole armi e munizioni?
Quando sono entrato a Small Arms Survey ero giovane e ricoprivo una posizione molto bassa ma nel giro di due anni sono stato inviato nel nord dell’Uganda a monitorare i massacri provocati dall’Esercito di Resistenza del Signore (LRA) guidato da Joseph Kony, il flusso di armi dentro quel conflitto e le dinamiche di sicurezza generale nel Paese. Pensavo che il momento più emozionante sarebbe stato intervistare le vittime dei tanti abusi perpetrati da LRA, ma in realtà l’esperienza più forte fu intervistare i bambini soldato che erano stati catturati e poi ritornati alle loro famiglie, e cercare di capire come la loro visione della vita fosse stata plasmata dal lungo periodo vissuto da combattenti, a uccidere familiari e amici, e come una vera re-integrazione nelle loro società, dopo le violenze di cui si erano fatti interpreti, non sarebbe stata mai possibile.

Lei è stato il pioniere di quello che è stato definito “tracking di munizioni”. Ci può spiegare com’è nato e in cosa consiste?
Nessuno prima di allora aveva veramente studiato le munizioni di piccolo calibro e quello che decisi di fare fu vivere per del tempo con le comunità pastorali dei Karimojonj nel nord-est dell’Uganda, dei Turkana nel nord-ovest del Kenya e con i Toposa in Sud Sudan prima dell’indipendenza. Queste comunità erano coinvolte in prolungati conflitti per la terra o il bestiame, combattuti con armi provenienti dalla guerra in Sudan. Non si trattava del “furto di bestiame” di cui parlavano i media, ma di una serie di piccole devastanti guerre combattute con pistole, lanciarazzi e mortai che contavano almeno 1000 vittime l’anno. La questione con le munizioni è che sono un bene consumabile e, se un kalashnikov può durare fino a 60 anni, una cartuccia una volta usata va sostituita con una nuova. Ciò che era chiaro per me è che la domanda, quando si tratta di munizioni, è molto reattiva e per questo si possono creare modelli di acquisizione e rifornimento in tempo reale. Nell’arco di tre anni ho studiato cartuccia per cartuccia, e segnato luogo e data di produzione, finché sono arrivato a creare dei grafici sempre più dettagliati da cui sono emersi i gruppi armati che facevano affari tra loro.

Dal 2008 al 2011 ha fatto parte del team di supervisione delle sanzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU in Costa d’Avorio. Di cosa si è occupato in quegli anni e quali sono state le scoperte più rilevanti?
Da esperto mi era stato chiesto di monitorare potenziali violazioni delle sanzioni implementate nel Paese e in particolare, avendo il Consiglio di Sicurezza approvato l’embargo di armi per la Costa d’Avorio, di concentrarmi sui rifornimenti illeciti di armi. Probabilmente la scoperta più interessante, per quel che riguarda il movimento fisico di armi e munizioni, fu accorgersi di quanti attori fossero coinvolti nel rifornire le due parti in guerra, cioè i ribelli a nord e il governo a sud. Via aria e terra, attraverso il Sahara, che è il più grande portatore di armi illecite e munizioni nel mondo, le armi partivano in Sudan e finivano in Costa d’Avorio. Se le armi di provenienza sudanese, ricevute dalle forces nouvelles musulmane nel nord, passavano per il deserto, anche il regime cristiano del Presidente Gbagbo a sud, che in teoria si sarebbe dovuto scontrare con il regime islamico di Khartoum, cominciò a importarne le armi e munizioni via aria e nel 2010 firmò addirittura un accordo con il leader sudanese – di cui abbiamo il documento. In generale, dopo lunghe esperienze nell’Africa orientale, prima, e in quella occidentale, poi, mi colpì molto vedere come le due regioni fossero fortemente connesse e capii che se volevamo capire il commercio di armi nella sua complessità non potevamo focalizzarci su un unico paese, ma guardare alla questione su scala regionale, se non globale. Per questo motivo abbiamo istituito il Conflict Armament Research (CAR).

Lavorare a una questione così sensibile come quella degli armamenti, per un’organizzazione potente come l’ONU, presenta delle restrizioni?
L’ONU è un’organizzazione molto politica e uno degli svantaggi nel lavorarci è che, qualora ti trovi per le mani informazioni sensibili su uno dei cinque membri permanenti o sui membri del Consiglio di Sicurezza, in virtù della possibilità di veto di cui godono, le probabilità di non essere riassunto alla scadenza del contratto sono molto elevate. Personalmente mi sono trovato ad affrontare questa situazione. I russi hanno bloccato la mia candidatura dopo che un aereo cargo russo è atterrato all’aeroporto di Abidjan in Costa d’Avorio – nonostante l’aeroporto stesso fosse stato chiuso all’ONU dal governo. L’aereo in questione aveva prima consegnato parti per aerei militari in Algeria e poi altro materiale – sconosciuto – ad Abidjan. Sapevamo che il governo ivoriano era disperatamente alla ricerca di componenti per riabilitare i suoi elicotteri d’attacco Mi-24 ma, per via dell’embargo, era impossibilitato a importare materiale bellico. Ho scritto ai russi per avere spiegazioni sul carico e non ho ricevuto risposta, e nel report finale ho segnalato questa cosa. Inutile dire che non la presero bene per nulla.

Nel 2011 Lei assieme ad alcuni colleghi di vari gruppi di supervisione delle sanzioni dell’ONU ha creato il CAR. Come ha fatto?
Poco per volta, abbiamo capito che avremmo potuto adottare la metodologia sperimentata in precedenza e applicarla globalmente. Come organizzazione indipendente, però, non volevamo dover competere, come molte altre organizzazioni fanno, per fondi mirati a coprire una specifica attività voluta dal donatore – nel caso delle armi può essere la ricerca dell’efficacia degli accordi per il controllo delle armi internazionali o l’impatto dell’uso delle armi nei civili. Volevamo rompere gli schemi e così abbiamo deciso di autofinanziare le nostre investigazioni e, al termine, abbiamo presentato un fait accompli dimostrando quello che eravamo in grado di fare. “Guarda, noi tracciamo le armi, immagina cosa potremmo fare globalmente!” Abbiamo creato il nostro mercato spingendo i finanziatori a creare fondi per la nostra specifica attività: una cosa mai vista prima nel mondo delle ONG.

Il vostro principale finanziatore è l’Unione Europea. Avete mai ricevuto pressioni?
No, assolutamente. L’UE ci ha detto fin da subito che avevamo carta bianca per fare tutto quello che il nostro mandato prevedeva, cioè tracciare le armi illegali a livello globale. Probabilmente uno dei motivi per cui non ha mai interferito nel nostro lavoro è che è un collettivo di stati dove nessun interesse particolare emerge a discapito degli altri. Ci riteniamo molto fortunati.

Dopo aver accumulato esperienze così diverse, può spiegarci cosa dicono le armi su scala locale, regionale e mondiale?
Innanzitutto le armi sono l’unica evidenza fisica di relazioni e dinamiche tra diversi gruppi per cui, se vuoi stabilire un modello per i trasferimenti di armi da un gruppo all’altro, è probabile che ci siano tra essi anche altri rapporti di tipo economico, politico o quant’altro, e le armi diventano il mezzo tramite cui capire queste dinamiche. Ti farò tre esempi basati sulla mia esperienza. Nel caso dello Small Arms Survey le armi ti spiegano i cambi nella domanda e offerta, le comunità in pericolo, e il rialzamento o abbassamento dei prezzi è sintomatico del grado di sicurezza percepito dai civili. Poi, più in generale, ti mostrano se lo stato garantisce sicurezza al suo popolo o no. Dalla prospettiva del monitoraggio dell’embargo delle armi per conto dell’ONU, che costituisce uno strumento di legge internazionale, non solo lo studio dei flussi di armi identifica possibili violazioni ma anche altre attività illecite come flussi di soldi a supporto di fazioni in guerra. Infine, per quel che concerne il CAR, aggregando la storia del trasferimento di un’arma dal produttore ai consumatori, ottieni un’idea perfetta delle varie parti coinvolte nel commercio e nella fornitura. Se quei dati li colleghi globalmente, puoi dedurre aspetti critici del commercio di armi internazionali, compresi i punti più caldi, i luoghi dove passano le armi e munizioni, chi sono gli attori principali di questo traffico in un dato continente, regione, o nella comunità locale. La nostra è un’investigazione basata sull’evidenza.

Com’è una sua giornata tipo?
Se sono in ufficio a Londra, ho molti compiti amministrativi e, visto che il nostro staff gestisce operazioni in paesi in guerra, la cosa più importante è che sia ben preparato, ben connesso ed informato e che abbia un ottimo network di intelligence attorno. Mi occupo anche di tante relazioni diplomatiche con l’Unione Europea, affinché si crei una comunicazione diretta con autorità nazionali, o assisto il mio staff nello stringere rapporti con parti in gioco particolari. Nel campo è molto diverso e, svincolato dai compiti amministrativi, posso godere di più libertà. Dipende anche molto dal paese. In Somalia, ad esempio, indosso il completo e partecipo a incontri con l’intelligence nazionale e il dipartimento della difesa per la sicurezza al mattino, mentre nel pomeriggio passo a ispezionare le armi accatastate nei magazzini o monto su mezzi corazzati con il giubbotto anti-proiettili. In Iraq e in Siria intrattengo tante relazioni diplomatiche di più basso livello, gestisco rapporti con le forze curde dei peshmerga nel Kurdistan iracheno e con i curdi YPG (o Unità di Protezione Popolare) in Siria e discuto delle varie dinamiche del conflitto agli stadi più bassi, visto che l’unità che abbiamo è ancora piccola. Ancora, in Sud Sudan c’è engagement diretto con la comunità affetta dagli scontri e mi reco nei luoghi dei massacri a collezionare prove, cartucce, per capirne la provenienza. La vita di James Bevan è incredibilmente varia ed è per questo che il mio è uno dei migliori lavori al mondo.

Quali sono i casi che al momento state seguendo più attentamente?
Sicuramente lo Stato Islamico (IS). Nel 2014 abbiamo cominciato a focalizzarsi sull’Iraq e poi sulla Siria e in 18 mesi abbiamo creato delle squadre investigative lungo i confini dell’IS grazie allo YPG nel nord-est della Siria, ai peshmerga nel Kurdistan iracheno e alle milizie sciite nel sud dell’Iraq, coprendo la zona che da Kobane va fino a sud di Baghdad. Il nostro mandato prevede che ci si rechi dove gli altri non vanno, perché è lì che spesso si trovano le informazioni più importanti. Così, ad esempio, lavoriamo stabilmente in Somalia, nel nord del Mali, in Libia, nella regione del Sahel e stiamo lavorando per entrare in Yemen, e in tutte quelle zone che generano preoccupazione a livello internazionale e che, come si è visto, hanno un impatto diretto sugli stati occidentali. Dobbiamo capire cosa sta succedendo in seno a quei conflitti e dare risposte sullo sviluppo degli ordigni esplosivi improvvisati (IED), perché quella tecnologia un giorno ci si potrebbe riversare contro e perché a oggi, a causa della poca copertura mediatica, la mappa mondiale è piena di buchi neri. La gente parla e dice che ci sono flussi di armi che entrano in Siria e Iraq ma se vuole fare qualcosa deve capire come, dove, quando e in che volume queste armi arrivano a destinazione. Noi collezioniamo tutti i dettagli necessari per un serio ed efficace policy-making e li mettiamo al servizio di tutti.

Qual è la vostra policy rispetto alle diverse parti coinvolte in un conflitto?
Trattiamo tutti allo stesso modo e non discriminiamo. Non cerchiamo mai armi provenienti da un unico Paese, ma documentiamo sempre tutto quello che troviamo. Se l’evidenza ha provenienza americana o turca, poco importa per noi, la riportiamo lo stesso e indipendentemente. Non facciamo alcun tipo di advocacy, che non sia la trasparenza, e ai nostri interlocutori forniamo sempre e solo evidenze inconfutabili, lasciando che siano poi loro a interpretarle.

Tirando le somme delle tante esperienze sul campo, vorrei domandarle: ha mai avuto paura?
Direi di no. No… Non ho mai avuto davvero paura, anche se avrei dovuto magari, ma sicuramente ci sono stati momenti in cui mi è scattata una grossa botta di adrenalina in corpo. Ricordo ancora quando i soldati governativi in Costa d’Avorio ci hanno rincorso con i pick-up e sparavano a raffica sulla nostra macchina, o quando l’esercito ugandese ci ha attaccato con i razzi o… tanti altri spari qui e lì. In generale, però, non ho mai temuto davvero per la mia vita e penso che ciò sia dovuto all’esperienza e a un certo meccanismo di sopravvivenza.

Quali sono stati i momenti più belli della tua carriera?
Sicuramente vivere e lavorare con i Turkana nel nord-ovest del Kenya e i Toposa in Sud Sudan, persone la cui vita è in bilico ed è cambiata impercettibilmente rispetto a migliaia d’anni fa. L’unica differenza da allora, gli unici cenni di modernità, sono alcuni contenitori in plastica e i kalashnikov. Quelli sono stati i momenti più duri, in cui ho patito di più la fame e la stanchezza… Ma anche i più memorabili. Ho avuto la fortuna di conoscere tantissime persone interessanti, e altrettanti contesti estremi ma bellissimi. Ho camminato per il Congo orientale e sono entrato in Sud Sudan dall’Uganda del nord, andato su sulle montagne e disceso nel deserto di dune… Quante esperienze incredibili. Mi ritengo una persona molto privilegiata.


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