Adriano Paolella

L’architettura? Ecco perché deve essere partecipata

di Marina Moioli

Superare la dicotomia tra il linguaggio tecnico del progettista e le necessità degli abitanti è da sempre l'obiettivo dell'architetto e ambientalista napoletano consulente di Italia Nostra e Cittadinanzattiva. Nel suo ultimo libro, "Partecipare l'Architettura" spiega perché riconoscere la capacità dell’azione diretta degli abitanti faciliterebbe il miglioramento delle condizioni insediative, la riduzione del “peso” ambientale e la ricomposizione di comunità equilibrate con luoghi e risorse

«Costruire è un atto grandioso di cui non è lecito sottovalutare l’imponenza. Quello che gli architetti sono chiamati a fare è molto di più del mero atto edificatorio. Essi con il loro operato contribuiscono alla definizione del modo di abitare e quindi operano direttamente sulla qualità della vita
degli individui e delle comunità. Il costruire in questa accezione è una pratica che interagisce con ambiti tematici molto differenti: esso trasforma non solo lo spazio fisico (e non è poco) ma la qualità ambientale e culturale (il paesaggio) e sociale (il benessere degli individui e delle comunità), incide sulla salute, sulle relazioni sociali, su tradizioni e i comportamenti». Lo scrive l'architetto Adriano Paolella, consulente di Italia Nostra e Cittadinanzattiva, nel suo ultimo libro "Partecipare l'architettura – Ovvero come progettare nella comunità" ( Luigi Pellegrini editore, 168 pagg, 1,99 euro), riflettendo sulla dicotomia tra linguaggio disciplinare e necessità e desideri degli abitanti e suggerendo le possibili soluzioni.

Perché e per chi ha scritto questo libro?
Sono anni che lavoro sui temi dell’architettura condivisa, del lavoro dal basso. Ho fatto esperienze in Calabria, in Abruzzo e in altre parti d'Italia con diverse comunità locali per il recupero di edifici abbandonati. Nel corso degli anni mi sono maggiormente rivolto a capire, interpretare, sostenere interessi comuni piuttosto che dedicarmi a produrre manufatti. Ma sono stato sempre soddisfatto del mestiere che ho scelto, così impregnato di cultura, ambiente, memoria, sociologia, antropologia, tecnica e al contempo così propositivo. Un mestiere meraviglioso nella sua possibilità di operare con le comunità e di progettare soluzioni capaci di contribuire al benessere degli abitanti. L’architetto è solo uno degli interlocutori del mio libro, per questo ho cercato di scrivere in maniera non tecnica.

Da dove le viene questa attenzione ai problemi della comunità?
Ho cominciato a studiare architettura negli anni '70, e già da studente andavo in giro con un taccuino a chiedere agli abitanti come volevano che fosse la loro casa. Questa attenzione ce l’ho da sempre. Credo che l’architetto debba avere un ruolo diverso da quello di deux ex machina che gli è sempre stata attribuita. Negli anni '90 poi sono andato a lavorare a Reggio Calabria e mi è capitato di notare un enorme palazzo di un quartiere perferico che aveva su una facciata una serie di abusi edilizi incredibili, mentre su un'altra non c’era assolutamente nulla: le pareti esterne erano perfettamente pulite. Mi sono chiesto il perché e alla fine ho capito che quelle persone che avevano costruito abusi edilizi si stavano solo difendendo dal sole e dal caldo. In quel momento ho realizzato che il mondo non poteva essere semplicisticamente diviso tra abusivi e non abusivi e che spesso dietro un presunto abuso c’era un motivo ben preciso. Ho capito che prima bisogna "capire" il perché e poi incasellare le cose.

Pochi specialisti dimostrano questa sensibilità…
Bisogna riuscire a cambiare un po’ tutta la nostra cultura. Allo specialista è stata data carta bianca. Da qui la mia critica alle archistar, che fanno tutti le stesse cose in tutto il mondo, facendo calare i loro progetti dall’alto. Mentre io sono convinto che l’architettura debba essere sempre collegata al territorio e ai bisogni degli abitanti. Uno degli effetti più centrali del mio ragionamento è il rapporto tra il formale e l’informale. I progettisti operano troppo frequentemente senza relazionarsi con chi utilizzerà i manufatti, astraendo e uniformando le richieste e anche quando si attuano processi decisionali partecipati si tende a ricondurre la creatività dei cittadini all’interno di logiche che uniformano esigenze e risposte. Nell’azione diretta degli abitanti, invece, esiste una grande potenzialità. L’adattamento dei luoghi è infatti una pratica connessa strettamente alla specie umana e nel tempo le culture locali hanno mostrato una capacità tecnica nel risolvere i problemi e nel configurare soluzioni ambientalmente e socialmente ottimali. Una errata interpretazione delle deleghe date agli specialisti del settore sembra avere espropriato le comunità di una capacità che le è propria.

In Italia uno dei problemi più urgenti è la ricostruzione post-terremoto. Come va affrontato secondo lei?
È evidente che il metodo dovrebbe essere sempre articolato secondo le singole esperienze. Non esistono soluzioni universali. Ed è altrettanto evidente che ci deve essere la partecipazione, non formale, dei cittadini interessati. Ma bisogna rendersi ben conto che le soluzioni non possono essere uguali, non possono andar bene per tutti. Detto questo è chiaro che i criteri generali su cui ci si deve sempre basare per fare le scelte sono sempre gli stessi: capire se una certa azione fa male all’ambiente o fa male alle persone. E poi occorre allargare i ragionamenti il più possibile coinvolgendo le comunità. Certo, mentre un tempo si sapeva costruire bene, anche in povertà, oggi purtroppo la cultura del costruire è molto ridotta o manca del tutto. L’unica soluzione è continuare a lavorare per alimentare sempre di più il dibattito culturale intorno al tema costruire.

Ma quale dovrebbe essere in concreto il metodo di lavoro?
Parlare con gli abitanti alla pari, perché questa è l’unica forma con cui si può parlare tra uomini. Ma per farlo bisogna avere coraggio e non tutelarsi dietro i propri titoli e le esperienze acquisite. Non vi è capacità tecnica ed esperienza che possa consentire ad alcuno di imporre le proprie scelte né giustificare progetti che non corrispondano ai desideri degli abitanti. Non si tratta quindi di organizzare progetti “per”, e nemmeno “con”, ma “dei” cittadini. Gli abitanti si attivano ascoltandoli, mettendosi a disposizione, capendo e cercando di farsi capire. Non più tutelati dalla corazza delle proprie discipline gli esperti debbono avere quel coraggio, che li rende umani, di confrontarsi alla pari anche con le più astruse richieste. Ogni incontro è un rischio; ma proprio nel rischio vi è la possibilità di captare il buono, di fare scaturire energie creative, ideative, attuative di segno positivo, di dare quei supporti tecnici che garantiscono di operare insieme per il raggiungimento di obiettivi condivisi. Così facendo gli individui divengono abitanti, acquisendo quella consapevolezza e quelle capacità che consentono di interagire positivamente con i luoghi.

Vede qualche spiraglio per gli anni futuri?
Ci sono moltissime situazioni positive di riuso, di recupero realizzate dal basso. C’è una mobilità sociale più presente rispetto agli anni '70. Il nostro futuro, anche paesaggistico, dipenderà da come si combinano due cose: il diritto e la capacità delle persone all’azione diretta. Se uno possiede la giusta consapevolezza del paesaggio tenderà a non distruggerlo. Esempi virtuosi ne esistono parecchi, ad esempio in Abruzzo dove alcuni borghi disabitati sono stati tutelati e rivitalizzati. In quelle zone tutti hanno la consapevolezza che quello che possono valorizzare e “vendere” è proprio il paesaggio. Il problema è mettere in moto queste comunità. Ma il compito finale, affidato alla capacità degli architetti, sarà di catalizzare le azioni formali e informali e di garantire i massimi livelli di qualità sociale e ambientale all’interno di un progetto che miri anche ad essere bello.

L'autore Adriano Paolella, architetto (Napoli, 1955) è dal 2014 consulente scientifico di Italia Nostra Onlus e Responsabile Scientifico campagna Disponibile! di Cittadinanzattiva. Tra gli incarichi: Direttore Generale del WWF Italia Onlus (2010-13), Amministratore Unico del WWF Ricerche e Progetti Srl (2004-10); Responsabile del Settore Territorio WWF Italia (1994-03); Direttore del Dipartimento ambiente della Techosynesis-Str Spa (1990-97), coordinatore del Consorzio Pelagos (1987-96); Responsabile di progetto Bonifica Spa (1984-89). Professore Associato di Tecnologia dell’Architettura, docente al dArTe all’Università “Mediterranea” di Reggio Calabria (dal 1998), ha insegnato al Politecnico di Bari e alla “La Sapienza” di Roma (1991-98). Segretario Generale e poi Presidente di IAED-International Association for Environmental Design del (1995-08).


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