Emily Mignanelli

Il mio corpo, mausoleo materno di latte mai sgorgato

di Redazione

Quattro anni fa la scrittrice e pedagogista perse il bimbo che aveva in grembo: «Non cancellate quella vita. Celebratela. Onorate ogni figlio che avete avuto, raccontate la sua storia ai vostri bambini». Quel bambino morto, sottolinea, «non è un bambino che non c’è mai stato», e « la sua morte non fa di lui un figlio di minor valore»

Quando quattro anni fa il figlio che Emily Mignanelli aveva in grembo morì, la ginecologa le consigliò di dimenticare in fretta e di cercare subito una nuova gravidanza. Lei invece rifiutò il suggerimento: lasciò passare i mesi che quella gravidanza interrotta avrebbe occupato nel suo utero e andò a fondo in quel dolore. Oggi, a distanza di tempo, lentamente, su quella «radura secca» lasciata dalla perdita, sono tornati i germogli. «Essere la tomba del proprio figlio, un mausoleo materno di latte mai sgorgato, può essere un privilegio», dice. «Non cancellate quella vita. Celebratela. Onorate ogni figlio che avete avuto, raccontate la sua storia ai vostri bambini». Quel bambino morto, sottolinea, «non è un bambino che non c’è mai stato», e « la sua morte non fa di lui un figlio di minor valore».

Di fronte ad una morte perinatale nessuno si vuole assumere la responsabilità di lasciare al tuo corpo la sua saggezza, la sua capacità di ripristinare la camera per il prossimo ospite con tutto il tempo che queste operazioni necessitano

«Ci sono vuoti che lasciano radure secche dove lentamente l’erba cresce di nuovo in tutta la sua potenza e dove rivoli di rugiada nutrono i germogli. Quei vuoti li lascia un incendio, una bomba, una guerra…o un lutto». Con queste parole Emily Mignanelli racconta il dolore che provò quando il bambino che custodiva nella sua pancia morì.

Quando successe, quattro anni fa, la ginecologa che la visitò rispose a quel dolore con la statistica. «Capita spesso che ti dicano che è un evento naturale e che avviene al 60% delle donne, una gravidanza su tre, e di non rimanerci male. Te lo ribadiscono mentre sei a gambe aperte e cerchi di trattenere i singulti del pianto per permettere alla ginecologa di estrarre l’embrione freddo». In certe strutture non c’è tatto, non c’è cura, non c’è carezza. «Ti viene detto che non puoi tenere l’embrione, che devono analizzarlo. Così tu ti ricomponi, nella vana speranza che qualcuno ti spieghi il perché sia accaduto. Questa speranza viene sbriciolata in seguito quando, trascorsi alcuni mesi, ricevi una lettera in cui tuo figlio viene definito come “materiale endometrioso di colore marrone”».

Mignanelli ne parla a distanza di tempo, ora che su quella «radura secca» sono tornati i germogli, perché questi anni le hanno donato una nuova consapevolezza. «Essere la tomba del proprio figlio, un mausoleo materno di latte mai sgorgato, di contatti mai dati, di sguardi attesi, di suoni che sprofondano in uno stomaco vuoto, cavo, può essere un privilegio», dice. A patto, però, di guardare in viso quel dolore, «di accettarlo, ringraziarlo», senza risparmiasi, senza nascondersi, «senza distogliere lo sguardo, con gli arti che tremano, con le lacrime che, impetuose, cercano un varco».

Accettare la morte, specie di una creatura che porti in grembo, è una cosa difficilissima. Talvolta sembra impossibile, innaturale. Eppure, racconta, quando lo fai qualcosa dentro te cambia profondamente. «La mutazione impone nuovi parametri, nuove misure, nuovi pesi e nuovi movimenti». Da quel momento, tutto acquista un nuovo significato: «la vita la manipoli con la cura e la delicatezza che avresti per un corallo, ne riconosci lo splendore, impari a capire che trattenerla è un misero vezzo ornamentale, ne conosci il punto di rottura e la friabilità».

Quando Mignanelli riporta indietro le lancette, la sua voce si fa più secca. Ripensa a quella ginecologa che le consigliò di «dimenticare subito l’accaduto» e di cercare in fretta una nuova gravidanza, come se per superare il lutto si dovesse dimenticare il lutto. «Di fronte ad una morte perinatale nessuno si vuole assumere la responsabilità di lasciare al tuo corpo la sua saggezza, la sua capacità di ripristinare la camera per il prossimo ospite con tutto il tempo che queste operazioni necessitano». Lei invece rifiutò il suggerimento della dottoressa e lasciò passare i mesi che quella gravidanza interrotta avrebbe occupato nel suo utero. A quel figlio diede un nome, aggiunse un quadro tra le foto di famiglia e un numero: il due. «Una conoscenza antica mi diceva che a ognuno è assegnato uno spazio, a ciascuno la sua storia, e che questo non dovrebbe mai essere occupato da qualcun altro, men che meno dimenticato».

Il dolore per un lutto e le sue possibilità sono qualcosa di molto complicato, ma sarebbe meglio non avere fretta: «Certi dolori fisici devono procedere di pari passo con quelli interiori: toglierne uno crea un collasso, un avvallamento nella psiche».

Mignanelli non dà consigli, almeno non come siamo abituati a riceverli, cioè sotto forma di decaloghi gocciolanti di imperativi. Semmai, attraverso il suo modo dolce e potente di esprimere le emozioni, invita a non disperdere la memoria di quella breve vita. «Stringete quel dolore – dice- andate a fondo e risorgete. Imparate dalla rondine, dalla saggezza e leggerezza con cui accetta la caduta di un uovo dal nido». E poi «Celebrate quella vita. Onorate ogni figlio che avete avuto, raccontate la sua, seppur breve, storia ai vostri figli. Create un simbolo che ne testimoni il passaggio e il posto che ha occupato e occuperà per sempre all’interno della famiglia: potete fare un quadro, appendere l’ecografia, scrivere una poesia per lui/lei o dipingere nelle camere dei vostri figli l’albero genealogico che li accoglie, contemplando ogni bambino che ne fa parte». Quel bambino morto, sottolinea, «non è un bambino che non c’è mai stato», e « la sua morte non fa di lui un figlio di minor valore».

Invece spesso il lutto è soffocato da una coperta di omertà e silenzio. Nel suo libro “Non basta diventare grandi per essere adulti” (Feltrinelli) Mignanelli ricorda che in quel periodo, in cui lei era «una cattedrale silenziosa e commossa», non fece altro che incontrare donne con gli occhi strabordanti di lacrime che l’abbracciavano sussurrandole all’orecchio che anche a loro era accaduto, ma non lo avevano mai rivelato a nessuno. Quel delta aggiuntivo di sofferenza le permise di scoprire una parte del mondo che ignorava: «una porzione dell’umanità che c’è ma non si vede. Che soffre ma lo fa senza lacrime. Che urla ma senza voce, che vorrebbe scappare ma deve rimanere ferma».

«Nel nostro paese -racconta Claudia Ravaldi, fondatrice e presidentessa dell’associazione CiaoLapo che offre supporto psicologico ai genitori colpiti da lutto perinatale- è ancora complicato parlare della morte di un bambino in utero e subito dopo la nascita». Eppure non sono poche le famiglie che vivono questo dramma. Gli ultimi dati Istat disponibili (2019) riportano che in Italia , in un anno, ci sono stati 61.215 aborti spontanei, 3878 aborti per patologia fetale e 1320 morti in utero. E ogni anno il 15 ottobre ricorre la giornata internazionale della consapevolezza sul tema della morte in gravidanza o dopo la nascita, l'International Baby Loss Awareness Day. Come accade dal 2007, anche quest’anno CiaoLapo ha organizzato dei momenti formativi e di commemorazione (online su www.ciaolapo.it/ ).

In problema di tutto il silenzio, sociale, famigliare e talvolta anche personale, commenta Mignanelli, è che non solo non onora quella breve vita, ma rischia di trasformarsi in un boomerang, più violento e più devastante della sofferenza iniziale: «se non lo si affronta, quel dolore prima o poi tornerà a bussare, con ricadute importanti sulla propria storia personale e famigliare». Lavorando da anni con i bambini, spiega, «ho potuto svariate volte osservare e toccare con mano manifestazioni di bambini a cui è celata questa verità». Sono bambini che hanno «problemi legati al sonno, bambini che hanno amici immaginari, bambini che giocano in maniera continuativa, o addirittura ossessiva, con alcune bambole e pupazzi a cui danno nomi e dai quali non riescono a separarsi, quasi assegnando loro un’anima vera e propria».

«Dite la verità, non nascondete il vostro vissuto» è l’invito dell’autrice. «La verità a qualsiasi età è un balsamo che lenisce dolori che non trovano voce».

Oggi Emily Mignanelli è un’insegnante, una pedagogista, ed è la fondatrice di Serendipità una realtà educativa che sorge ad Osimo, a pochi kilometri da Ancona per bambini da 1 a 14 anni fondata sulla ricerca, la sperimentazione educativa e la pedagogia sistemica e di Corallo, centro di pedagogia dinamica e sistemica. Nel suo ultimo libro, l’autrice non solo dedica un capitolo al lutto perinatale, ma invita i genitori, gli adulti in generale, a prendersi in carico la propria infanzia: «finché questa non viene guardata, curata, risarcita, ascoltata, adulti non si diventa mai». «Nella nostra scuola – spiega Mignanelli – mettiamo al centro le famiglie e le sosteniamo con grande fiducia, perché siamo convinti che da lì bisogna partire per creare un nuovo paradigma educativo che tenga assieme la responsabilità, la consapevolezza e la strumentazione idonea». Mignanelli ha anche un blog


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA