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Valentina Picca Bianchi

Credo nella parità di competenze più che nelle quote rosa

di Redazione

L'imprenditrice del settore wedding, da marzo chiamata da Giancarlo Giorgetti a guidare il "Comitato imprese Donna" del ministero della Sviluppo economico, dice che le donne devono mutuare dagli uomini i modelli positivi, come lo "spirito da spogliatoio" che a volte si genera in azienda. Bene il Fondo imprese femminili ma sul gender gap c'è bisogno di ulteriori strumenti e investimenti

Per lui le congratulazioni, per lei apprensione che, talvolta, vuol dire rinuncia al posto di lavoro: in Italia diventare genitori provoca reazioni diverse quando la notizia è comunicata in azienda, lo ha ribadito solo pochi giorni fa Elisabetta Franchi, l’imprenditrice bolognese del settore moda, tentando di “normalizzare” il rigido binomio: o sei donna in carriera o sei madre. E le polemiche durano ancora.

Tra privato e professionale però le lavoratrici madri diventano “equilibriste”, come suggerisce un rapporto di Save The Children per cui il 77,2% di loro (30.911) a causa delle difficoltà nel conciliare i due ambiti è costretto alla fine a rassegnare dimissioni volontarie, a fronte delle 9.110 dei padri. Ma nella maggior parte dei casi è l’azienda stessa che comunica quanto sia indesiderata la gravidanza delle dipendenti e “i giri di boa” della Franchi – “oggi le donne le ho messe ma sono 'anta' (…). Se dovevano far figli o sposarsi lo avevano già fatto e quindi io le prendo che han fatto tutti i giri di boa, sono al mio fianco e lavorano h24” – ribadiscono questo messaggio e non solo per le over 40.

Abbiamo chiesto le ragioni di questa situazione a Valentina Picca Bianchi. Nativa di Latina, laureata in Sociologia della comunicazione alla Sapienza di Roma, Picca Bianchi è presidentessa delle Donne Imprenditrici della Federazione Italiana Pubblici Esercizi – Fipe e, dal marzo scorso, del “Comitato impresa donna” del Mise, che si prefigge di interpretare tutte le esigenze dell’imprenditoria femminile.

Picca Bianchi, che cosa significa la parità di genere per lei?

È la parità nella possibilità di espressione. Se ho un’idea d’impresa, devo poterla esprimere e realizzare. C’è ancora un’estrema difficoltà per le donne nel dimostrare le proprie attitudini e valori. Purtroppo ci manca ancora la cosiddetta ‘logica dello spogliatoio’, un punto di forza dell’universo maschile. La sorellanza tra le lavoratrici non deve opporsi o emulare la fratellanza. Non c’è ancora un forte senso di squadra tra le donne in azienda, che è un collante fondamentale, alla base di quella catena di solidarietà che porta alla condivisione di reciproche esperienze e a creare consapevolezza, soprattutto, di non essere sole.

Rispetto a modelli maschili deteriori, che certe donne ritengono di dover assumere per far carriera, quali qualità hanno contato nella sua crescita professionale?

Per fare questo lavoro ho puntato su determinazione, coraggio, capacità di visione e un pizzico di umiltà. Non sono figlia di imprenditori, quindi mi hanno guidata l’ambizione e la determinazione nel voler sfidare me stessa e dimostrare il mio valore, mi hanno guidata l’abnegazione per il lavoro, la voglia studiare, imparare e mettersi alla prova. Questo per iniziare, ma l’imprenditrice deve poi dimostrare coraggio: ogni giorno ci chiediamo cosa fare, come approcciare al mercato e quale scelta fare per la propria azienda, bella o brutta che sia. Bisogna avere capacità di visione: l’orizzonte necessario per creare valore non è solo finanziario, ma deve restituire e ridistribuire un valore economico unitamente a fare il bene dell’impresa, per trasferire valore anche alle giovani donne e a chi volesse approcciare all’imprenditoria. Infine serve umiltà. Paradossalmente occorre sentirsi sempre un po' inadeguate: se ci si considera "prime donne" e già arrivate, vuol dire che si è già un passo indietro rispetto alla propria capacità creativa.

Mi hanno guidata l’ambizione e la determinazione nel voler sfidare me stessa e dimostrare il mio valore. Mi hanno guidata l’abnegazione per il lavoro, la voglia studiare, imparare e mettersi alla prova.

Valentina Picca Bianchi

Ci sono maestre nella sua storia personale?

Nel mio lavoro mi hanno ispirato tante donne: sicuramente mia mamma, che mi ha insegnato il senso di dedizione e responsabilità, ma nel mio settore stimo molto Rita Rabassi, che ha fatto la storia del settore editoria wedding, o Livia Iaccarino, regina del mondo dell’ospitalità italiana e co-titolare del ristorante stellato “Don Alfonso”, in provincia di Sorrento.

(Molte di queste imprenditrici sono protagoniste del libro Le donne si danno del tu (edizioni Dfg Lab). Durante la pandemia, Picca Bianchi si è fatta interprete dell’universo imprenditoriale femminile, creando una chat WhatsApp professionale, diventata poi un punto di riferimento per tantissime titolari di bar, ristoranti e attività di somministrazione. Una storia di resilienza di genere che raccoglie sogni, speranze, consigli di 340 donne imprenditrici della filiera durante la pandemia, ndr).

Veniamo da anni difficili. Nel suo caso, cosa le ha dato lo slancio per riuscire nel suo lavoro e affermarsi nonostante le difficoltà?

Sicuramente la predisposizione all’ascolto, più che al parlare, il famoso ‘rubare con gli occhi’, l’osservazione che va stimolata attraverso l’esperienza con l’altro, la sensibilità verso le persone che lavorano e fanno parte del tuo staff, il coinvolgimento di chiunque sia funzionale alla realizzazione di un’idea. Io ho una società di catering, che mi richiede pazienza e comprensione verso il team e verso il cliente. Oggi manca soprattutto una capacità d’impresa costruita con la testa, col cuore e con l'intuito imprenditoriale delle donne: per questo bisogna lavorare molto sull’empowerment femminile. Soprattutto sugli strumenti che incentivino l’imprenditoria di genere come il Fondo impresa femminile, partito da poco.

Che cosa pensa delle quote rosa?

Sono sicuramente funzionali, in questa fase, per riequilibrare le presenze femminili, ma preferisco parlare di parità di competenze oltre che di numeri.

Il Fondo Impresa quanto può aiutare effettivamente le donne italiane a superare le barriere di genere nell’imprenditoria femminile?

È un grande strumento ma non colma ancora le forti carenze dovute al gender gap nell’imprenditoria e il grave disagio provocato prima dai due anni di pandemia e ora dalle ripercussioni della guerra. Spesso nell’impresa al femminile c’è poi una carenza di cultura d’impresa: riscontriamo per esempio enormi fatiche delle imprenditrici nello strutturare business plan tecnologici, nel mettere su carta un’idea imprenditoriale innovativa che permetta di usufruire di questi fondi. Servono progetti con una connotazione attenta al risparmio energetico, finalizzati allo sviluppo di un’attitudine aziendale al rapporto con il denaro, all’utilizzo dinamico degli strumenti finanziari.

Quali sono gli strumenti che aiutano attualmente le donne nelle aziende e quali quelli che, rispetto alle imprese europee, fatichiamo ancora a introdurre sul posto di lavoro?

Sicuramente quelli intrapresi dallo Stato e dalla ministra per le Pari opportunità e la famiglia, Elena Bonetti, che supportano il Family act e il principio paritario di congedo parentale, la defiscalizzazione femminile, l’istituzione degli asili nido di prossimità, i servizi economici alle famiglie e degli incentivi che premino la genitorialità. Il problema è che, quando si parla di aziende, si parla sempre del punto di vista dell’imprenditore e mai dell’imprenditrice e della sua squadra. La Francia sulla cultura imprenditoriale al femminile è avanti diversi anni rispetto a noi, così come tutti i paesi del Nord Europa.

L'intervista termina qui ma giova ricordare che i ruoli apicali nelle aziende sono ancora preclusi alle donne. Secondo uno studio europeo di European Women on Boards, l'Italia abbia la più alta percentuale di donne nei Comitati dei Cda/Consigli di Sorveglianza (47%), ma solo il 15% di loro è a capo dei Cda (15%), mentre il numero delle donne italiane nei ruoli esecutivi corrisponde al 17%, contro il 32% della Norvegia e il 24% della Gran Bretagna. La percentuale di donne Ceo (chief executive officer, ossia amministratore delegato) in Italia è scesa nel 2021 al 3% (lo scorso anno erano il 4%) il che posiziona il nostro Paese in fondo alla classifica assieme a Germania (3%) e Svizzera (2%) e dietro a Spagna (4%) e Portogallo (6%), contro il 26% della Norvegia, il 18% della Repubblica Ceca e 14% della Polonia.

Che si parli di gender gap o gender pay gap, perciò, l’Italia deve ancora farne parecchi di giri di boa, prima di definirsi un Paese dove le donne che vogliano fare carriera non siano discriminate o non debbano guarda alla maternità non come un diritto, ma come un sacrificio.


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