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Roberto Ricci

La dispersione implicita? Riguarda un alunno su dieci

di Sara De Carli

A scuola ci sono andati, ma le competenze che hanno acquisito sono minime: in quinta superiore sono equiparabili a quelle della terza media. La lotta alla dispersione scolastica deve mettere al centro anche questi studenti, non solo quelli che la scuola l'hanno già abbandonata. Intervista a Roberto Ricci, presidente di Invalsi: una delle voci del nuovo numero di VITA

«La pandemia ha reso ancora più attuale il problema della dispersione scolastica poiché si è compresa l’importanza di non disperdere le risorse umane del Paese, ancora più importanti in un momento come quello attuale. Da qualche tempo è divenuto chiaro che l’attenzione non deve essere rivolta solo a coloro che la scuola l’abbandonano, ma anche a tutti i giovani che la terminano senza avere le competenze di base necessarie» così l’ultimo report dell’Invalsi, quello sulle prove fatte nel 2022, introduce il dato relativo alla dispersione implicita, che oggi è al 9,7%. Significa che tra gli studenti dell’ultimo anno della secondaria di II grado, dopo 13 anni di studio, uno su dieci ha un livello di competenze che si fermano al livello 1. Nel 2019, anno in cui Invalsi ha iniziato a restituire i dati sulla dispersione scolastica implicita, questa si attestava al 7,5%, per salire al 9,8% nel 2021 (le prove nel 2020 non si sono svolte, per via della pandemia) «molto probabilmente a causa di lunghi periodi di sospensione delle lezioni in presenza».

«La disponibilità di dati censuari sugli apprendimenti, confrontabili su base nazionale, permette di individuare quegli studenti che, pur non essendo dispersi in senso formale, terminano però il percorso scolastico senza aver acquisito le competenze fondamentali; tali studenti sono quindi a forte rischio di avere limitate prospettive di inserimento nella società molto simili a quelle degli studenti che non hanno concluso la scuola secondaria di secondo grado. Tale forma di dispersione scolastica è stata definita dispersione scolastica implicita o nascosta»: spiega Roberto Ricci, presidente di Invalsi. È una delle voci che sul numero di VITA di settembre, dedicato alla dispersione scolastica, ci aiuta a mettere insieme i tasselli di un problema enorme della nostra scuola, troppo spesso lasciato ai margini come se riguardasse solo "i dispersi" e "il sociale" e non il Paese. Nel 2022 sulla dispersione implicita si osserva un’inversione di tendenza sia a livello nazionale (-0,1 punti percentuali) sia a livello regionale. In termini comparativi, il calo maggiore della dispersione scolastica implicita si registra in Puglia (-4,3 punti percentuali) e in Calabria (-3,8 punti percentuali). Tuttavia, le differenze assolute a livello territoriale rimangano molto elevate: in Campania e in Sardegna riguarda sostanzialmente uno studente su cinque (rispettivamente 19,8% e 18,7%).

La dispersione scolastica, esplicita e implicita, è un problema non certo nuovo per l’Italia. La novità è che il Pnrr stanzia 1,5 miliardi per contrastarla e per combattere i divari territoriali. Invalsi quali indicatori rileva che possono aiutarci a leggere la realtà da questo punto di vista e qual è la fotografia sintetica che ci dica a che punto siamo oggi?

È importante distinguere i concetti: accanto alla dispersione vera e propria, quella degli studenti che a un certo punto abbandonano la scuola, ce n'è un'altra che vediamo meno ma che è altrettanto grave. Sono ragazzi che terminano il loro percorso scolastico con competenze molto più limitate rispetto a quelle che ci si dovrebbe attendere. Ragazzi che dopo 13 anni nel percorso scolastico hanno competenze non molto dissimili da quelle attese al termine della terza media, quindi alla fin fine molto simili a chi la scuola l’ha abbandonata davvero. Noi abbiamo introdotto il concetto di dispersione implicita nel 2019, per dare una informazione in più. Nelle tre rilevazioni – quella del 2020 non è stata fatta – i dati sono migliorati, sono stati fatti degli sforzi. Ora il PNRR vuole per l'Italia e altri paesi cercare di ridurre i numeri di coloro che abbandonano la scuola e il modo migliore per farlo è andare in aiuto, il prima possibile, agli allievi che sono più fragili perché sono più esposti al rischio. L’idea – vale per l’introduzione dell’indicatore della dispersione implicita e vale per il PNRR – è quella di identificare il prima possibile la popolazione studentesca più fragile, quindi maggiormente esposta al rischio di abbandono e di intervenire tempestivamente. In questo senso i dati Invalsi possono fornire uno strumento, non unico, ma molto importante per l'individuazione dei singoli alunni su cui intervenire.

Esattamente cosa significa che uno studente su 10, in quinta superiore, ha livelli di competenze tali per cui nei fatti è in dispersione implicita? È una semplificazione eccessiva o no dire che questi ragazzi “non sanno leggere e comprendere un testo”?

Quando si dice che circa 1 studente su 10 non sa comprendere un testo ovviamente è un’affermazione imprecisa: dovremmo dire che non sa leggere e comprendere un testo per come dovrebbe farlo dopo 13 anni di scuola. Un cittadino a quel punto dovrebbe essere in grado di leggere testi complessi, farsi idee autonome… invece pur avendo fatto 13 anni di scuola si ferma grossomodo alle stesse competenze di chi è al termine della secondaria di I grado, quindi dopo 8 anni di scuola. E sono allievi in condizione di fragilità in tutte le 4 aree della rilevazione: italiano, matematica, inglese listening e inglese reading. Questo fenomeno della dispersione implicita a livello di processo va monitorato costantemente e richiede una manutenzione continua. Non puoi annaffiare un fiore una volta e poi dimenticartelo, devi curarlo costantemente…

Il Pnrr stanzia 1,5 miliardi per il contrasto della dispersione scolastica e il superamento dei divari territoriali. La prima tranche da 500 milioni è già stata distribuita alle scuole. Per la prima volta il Ministero ha scelto di non erogare delle risorse né a pioggia né tramite bandi (che era la strada tradizionalmente utilizzata con i PON) ma tramite l’individuazione dei territori – “aree di educazione prioritaria” – più bisognosi da questo punto di vista e poi in essi delle scuole ove più è urgente un intervento ad hoc. Come i dati raccolti da Invalsi hanno contribuito, insieme ad altri indicatori, a individuare questi territori e queste scuole?

Il Pnrr cambia completamente filosofia rispetto ai Pon, non solo sull’istruzione ma in generale. Il Ministero per l'attribuzione di queste risorse ha proceduto su due piani. Il primo è stato quello di individuare a livello macro, generale, quante risorse dare a ciascuna regione: qui l’Invalsi non interviene, sono stati usati dati economici, sulle condizione socioeconomiche e culturali della regione. A quel punto, stabilita la quota di risorse per ogni regione, sono stati utilizzati due criteri per individuare le scuole: il numero degli studenti presenti nella scuola e il numero di studenti che si trovano in situazione di fragilità come l’abbiamo definita prima rispetto alle rilevazioni delle prove Invalsi. L’effetto congiunto di indicatori fa sì che la scuola acceda o non acceda ai finanziamenti e con quale intensità. C’è stata una polemica sul fatto che si siano privilegiate le scuole superiori, ma la misura a livello europeo riguarda la fascia di età 12-19 anni, sono sette coorti scolastiche di cui cinque stanno alla secondaria di II grado e due alla secondaria di I grado.

Comunemente si associa il fenomeno della dispersione scolastica e di livelli di competenze inferiori al Mezzogiorno e alle periferie: è un pregiudizio o no, in base ai dati Invalsi?

In buona parte i dati lo confermano: d'altronde sappiamo bene che la fragilità scolastica spesso, anche se non sempre, si lega a altre forme di disagio, che hanno un effetto moltiplicatore sugli esiti scolastici. Attenti però a non immaginare la logica centro-periferie e città-non città. Alla medie grosso modo c’è ancora la scuola di quartiere, ma alle superiori no: gli istituti tecnici e professionali per esempio sono ubicati in determinati quartieri ma poi servono bacini d’utenza ampissimi, che prendono tutta la città. Non conta tanto la sede fisica della scuola, ma le caratteristiche degli utenti che ci vanno.

È possibile individuare delle caratteristiche comuni per i territori e gli studenti più bisognosi di un intervento specifico, dedicato e urgente?

Allievi che hanno ricevuto poche opportunità di crescita culturale da parte del contesto in cui vivono, dalla famiglia al territorio. Purtroppo ancora nel 2022 questi fattori rivestono un’enorme importanza, perché la scuola non riesce ad essere quell'ascensore sociale che dovrebbe essere. In termini di punti percentuali la dispersione implicita è più che doppia per gli allievi che provengono da famiglie meno avvantaggiate e quasi quadrupla per gli allievi di cui non sono disponibili i dati di background.

La scuola però era un ascensore sociale. Ha smesso di esserlo…

Negli anni ‘60/’70 la scuola riusciva ad essere un ascensore sociale, è vero, ma in tutta onestà va detto che in quell’epoca nell'ascensore ci entrava solo una quota di popolazione, perché un'altra quota dalla scuola era espulsa. Noi invece oggi diciamo che nell'ascensore ci devono stare tutti gli studenti, o quasi. Lo sforzo che l’ascensore deve compiere è del tutto diverso.

Invalsi non restituisce pubblicamente i dati delle singole scuole, ma quali sono le scuole o i territori che in questi anni hanno migliorato gli indicatori collegabili al rischio di dispersione? È possibile individuare delle cause comuni?

Più che di territori parlerei di caratteristiche di queste scuole. C’è un filo rosso che guida i risultati positivi ed è lo sforzo che queste scuole hanno fatto di prendere in carico concretamente i problemi, partendo anche dai dati. I dati sono strumento di studio e di formulazione di ipotesi ma poi cosa funziona e cosa non funziona va visto sul campo… con le studentesse e gli studenti in carne e ossa. Sono scuole che si sono poste il problema di declinare i traguardi di apprendimento senza essere schiavi del famoso programma. Nei territori più difficili è stata fatta una lotta di trincea all’assenteismo, uno studente alla volta, è questo ha dato grandi soddisfazioni.

Le alleanze con altri soggetti del territorio, le famose comunità educanti, servono?

Senza dubbio. io sono un disciplinarista di ferro, credo che senza contenuti l’inclusione è illusoria, ma certamente la sollecitazione di tutti quegli aspetti di competenza e motivazione che possono consentire di riagganciare i ragazzi più fragili sono preziosi… Qui il territorio, gli enti locali e il Terzo settore possono giocare un grande ruolo ma non dimentichiamo che ci sono aree del paese in cui l’ente locale per la scuola è “un fratello” e altre in cui è parte del problema.

Misurare dovrebbe essere la premessa per prendere decisioni. Sulla dispersione – che sappiamo avere cause esterne alla scuola e cause interne alla scuola – quali decisioni sarebbero da prendere dinanzi ai dati che Invalsi ci restituisce? Perché le risorse del Pnrr sono un treno che passa una volta sola…

A parità di dati possono seguire decisioni diverse, scegliere è un atto professionale e politico. Invalsi non si può sostituire al decisore politico. Ma una prima indicazione operativa che per la sua ragionevolezza è banale mi sembrerebbe quella di ricordare che con i dati delle prove Invalsi è possibile individuare subito chi sono i ragazzi più fragili, più bisognosi di intervento. Sono i naturali destinatari delle azioni. Individuarli è semplice, le scuole potrebbero intervenire subito.

A metà estate, quando il Ministero ha pubblicato gli esiti delle prove di maturità, è balzato agli occhi a tanti il fatto che in Calabria, nelle stesse classi in cui 6 studenti su 10 erano sotto il livello base in italiano negli ultimi testi Invalsi, uno studente su 15 abbia poi meritato 10 e lode alla maturità. Secondo i dati del Ministero, al termine del secondo ciclo, la regione che ha avuto il più alto numero di diplomati con lode è stata la Calabria (6,6%), seguita da Puglia (6,3%), Umbria (5%) e Sicilia (4,8%). Ultima è la Lombardia, dove hanno preso la lode solo 1,5 studenti su cento. Una fotografia ben diversa da quella che aveva restituito Invalsi. Come leggere questi dati? La distanza che si evince in alcuni territori tra gli esiti nelle prove Invalsi e quelli della maturità è una contraddizione?

Un po’ sì, ed è inutile girarci attorno. Ma è più effetto di un mancato rapporto d’amore tra la valutazione di scuola e la valutazione standardizzata. Cosa intendo dire con mancato rapporto d’amore? Come in tutti i rapporti di coppia, i due soggetti che compongono la coppia sono portatori di differenze, se queste si aiutano fanno qualcosa di più, se invece queste vanno ognuna per conto suo, la coppia finisce male. In questo caso, la coppia purtroppo non sta andando benissimo. La valutazione di scuola osserva anche tanti altri aspetti del ragazzo, che la valutazione standardizzata non osserva, per questo io non mi scandalizzo che ci siano delle differenze, ma deve esistere – soprattutto alla maturità – una certa relazione tra le due cose. Benvenga una valutazione squisitamente di scuola, calata sullo studente, però questa non può prescindere da uno sguardo più ampio.

Mentre la polemica sulla percentuale di promossi all’esame che sfiora il 100%?

Questa invece l’ho trovata del tutto fuori luogo, perché vuol dire sottovalutare una tragedia del nostro sistema. Mi spiego con un esempio: ci fosse mai qualcuno che si scandalizza perché agli esami di laurea i promossi sono il 100%. In tanti anni non ho mai letto un rigo. Non c’è scandalo, perché chi arriva all’esame di laurea, il suo percorso lo ha fatto. È uguale per la maturità: per dieci studenti che si iscrivono in prima, purtroppo non ne arrivano più di 8 o a volte 7 e mezzo alla maturità. Non dimentichiamo, inoltre, che l’esame di maturità è preceduto da una ammissione: gli insegnanti sono dei professionisti, se uno studente viene ammesso all’esame vuol dire che ha ottime possibilità di superarlo…. È quasi ovvio per chi è arrivato fin qui. Anzi, questa polemica del 98,5% di promossi… la leggo in questo modo: nonostante quel 20% che abbiamo perso, un'altra percentuale di ragazzi la perdiamo in sede di esame finale. Quindi il percorso è estremamente selettivo. Lo stesso ragionamento vale per il primo ciclo. Su questo, una strigliatina i giornalisti se la meriterebbero.

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