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Fabio Folgheraiter

Le parole per non odiare

di Veronica Rossi

Nel suo libro "Parole sociali. Dizionario minimo di Social work", il sociologo della Cattolica raccoglie e definisce più di 400 sostantivi che costituiscono l'essenza del pensiero sociale contemporaneo. Il linguaggio, secondo lui, detiene un potere trasformativo, che gli operatori sociali avvertono con maggiore sensibilità

Un dizionario essenziale, che tratteggia i punti fondamentali del Social work e, in generale, del pensiero sociale contemporaneo. È questo che vuol essere Parole Sociali (Erickson), il libro di Fabio Folgheraiter, scrittore e professore di Metodologia del servizio sociale all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, che raccoglie più di 400 vocaboli, definendoli in poche righe, nello spazio di un moderno tweet. Le voci, in parte tratte dal lavoro svolto dall’autore nel corso degli anni per la rivista “Lavoro sociale” e in parte inedite, diventano le basi per un ragionamento personale libero e possono infondere la forza trasformativa di cui necessita una democrazia. Perché, nel Social work, ogni parola ha un nocciolo di senso che chiede di emergere e di essere visto.

Innanzitutto, che legame c’è tra il mondo della parola e il mondo del sociale?

La sostanza dei servizi sociali è la parola. È vero che il welfare spesso è rappresentato come trasferimento/redistribuzione di beni tangibili come denaro (sussidi, pensioni, indennità), prestazioni socio-sanitarie (diagnosi, ricoveri in ospedale o in Rsa, per esempio), risorse (pasti caldi, alloggi per la notte…) ma tutte le erogazioni non avrebbero senso se fossero azionate da dei robot incapaci di parola o forniti soltanto di parole pre-codificate e metalliche.

Dove si può trovare, allora, il senso del lavoro sociale?

L’essenza degli aiuti socio-assistenziali è quella di personalizzare, ossia adattare la risorsa astratta (universalistica) alle singole necessità delle persone o dei nuclei familiari. Ma al di là della necessità di umanizzare le erogazioni, è chiaro in generale che ogni aiuto profondo (cioè ogni sforzo che miri a cambiamenti psico-emotivi o a pesanti riorganizzazioni dei corsi di vita delle persone) stimola la capacità discorsiva degli umani coinvolti (operatori, persone, famiglie…) i quali possono contare sull’empatia per intendersi a fondo.

E, a questo scopo, perché sono importanti le parole?

Gli operatori sociali o clinici debbono saper modulare le parole a seconda delle differenti contingenze che incontrano. Debbono sapere parlare in modo diretto e semplice ai loro utenti, per toccare i tasti del dolore e della speranza, così come saper dominare/articolare il pensiero nelle riunioni di équipe o nelle relazioni scritte, sapendo sia distinguere che collegare i concetti quando necessario (“distinguere per unire”, diceva Jacques Maritain).

Ed è una competenza complessa, questa, che va insegnata.

Le università che formano gli operatori sociali e i dirigenti dei Servizi sociali hanno una responsabilità grande nel cercare di appassionare gli studenti al ragionamento rigoroso, alle parole dette con senso. L’operatore sociale si trova spesso immerso in situazioni umane complicate e dolorose dove la irrazionalità e l’insensatezza sono il problema o ne costituiscono le premesse. Ovviamente ci si aspetta che l’operatore sappia contrastare questa deriva e immetta nei ragionamenti e nei sentimenti tesi “a migliorare le cose” un contributo di pensiero serio, che vada anche oltre (mai contro) la scientificità quando necessario. Intollerabile e deprimente sarebbe constatare che a volte un pensiero professionale confuso e tracotante contribuisca a intorbidire gli animi anziché a rasserenarli.

Qual è lo stato della parola ai tempi dei social network?

Vediamo – come diceva Martin Buber– che sempre più La parola è gettata in pasto alle parole”. Sentiamo tutti di vivere in una sorta di Babele montante e incontrollabile dove ciascuno spara il suo pensiero nell’etere convinto che tutto ciò che esce dal proprio Ego sia necessario dirlo. Siamo nell’età della affabulazione e delle chiacchiere amplificate, nella sicurezza di spacciare come verità oggettiva tutto ciò che salti in mente. Nell’età della post-verità, dove persino si teorizza la legittimità della menzogna e della controinformazione, nulla risulta vero quanto le mezze falsità. Sommati assieme e rimestati quotidianamente, tutti questi veleni formano una poltiglia entro cui il senso sociale si impantana e spesso si incattivisce.

Dentro questa che lei definisce una “Babele” si sta giocando anche larga parte della campagna elettorale. Quali sono le parole che lei vorrebbe sentire nei programmi dei nostri politici?

Naturalmente è inevitabile che la sarabanda di parole di cui si è detto trovi la stura in una campagna elettorale. Non si potrebbe aspettarci diversamente, posto che la democrazia vive di parole e di argomentazioni. Guai se non ci fosse la libertà di sparare ciò che si pensa, anche se di queste sparate finiamo per non poterne più. Se avessimo il potere di dire la nostra ai politici affannati a rincorrere i gusti e gli umori degli elettori, li pregheremmo, per favore, di non rimestare nella parte oscura degli animi nostri, eccitando i nostri istinti egoistici e irrazionali. Chiederemmo di sforzarsi di connettersi alla parte buona e civile che in fondo è presente in ogni persona, usando parole soffici e buone. Parole, ad esempio che comprendano e rispettino i milioni di persone che nel mondo sono malate, abbandonate, oppresse, bombardate, affamate. L’“aver cura” (la care di Don Lorenzo Milani) ad esempio, sarebbe una espressione “buona”, così come l’accoglienza e l’apertura, il rendere onore alle diversità, alla solidarietà, al vivere in pace, ecc. Facendo attenzione poi al paradosso. Tante di queste nobili parole risultano purtroppo declamate a sproposito e abusate. Nella poltiglia del dibattito mediatico, spesso finiscono strumentalizzate, usate come specchietti per le allodole. Wystan Hugh Auden ci dice che esse finiscono involontariamente per essere “inzozzate, profanate, ridotte ad un orrido strillo meccanico”.

Quindi oggi circolano molte parole pericolose.

Le parole “sono” la realtà, la “costruiscono” di continuo. Purtroppo le parole astiose, brutte e infide filtrano nelle personalità suggestionabili e mandano poi in aceto la società. Le parole d’odio, di sopraffazione e di disprezzo, urlate con rabbia, vincono sempre su quelle miti e costruttive, esposte col dubbio. Il linguaggio arrogante diviene un’arma e difatti, come si vede, la propaganda d’odio è propedeutica alle guerre e pure alle cosiddette “operazioni speciali”. Non solo sui media, ma anche nella vita di tutti i giorni le parole che veicolano narcisismo e suprematismo (“Noi siamo i migliori”, “Noi siamo nel giusto”, “Voi siete sbagliati”…) creano di fatto tutti i problemi che ci affliggono. Gli operatori sociali sono forse i cittadini che avvertono con più sensibilità il veleno e la grazie delle parole. In questo senso si pongono come cittadini morali, per riprendere Hannah Arendt. Nel loro piccolo, sono dei modelli di come si parla, e a maggior ragione di come si vive, nelle proprie comunità.


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