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Cultura

Libri viventi, i libri più veri che ci siano

di Sara De Carli

Ulderico Maggi, Paola Meardi e Cristian Zanelli di ABCittà raccontano in un libro l'esperienza della "human library", che hanno portato in Italia nel 2011, formando 198 libri umani, di cui 70 in carcere. Li abbiamo incontrati, per capire come e perché "sfogliare" una biografia può smontare un pregiudizio

Albert Einstein non aveva dubbi: «è più facile spezzare un atomo che un pregiudizio». Eppure i libri viventi che lo scorso luglio sono stati protagonisti della “Biblioteca Vivente” nel carcere di Bollate (Milano), riflettendo su quell’esperienza hanno detto che «la gente nell’entrare aveva dei pensieri nei confronti dei carcerati, nell’uscire ne ha avuti altri»; «noi siamo sempre quelli “sbagliati”, invece leggendo i messaggi della gente sembrava che fossimo quasi perfetti»; «le persone non smettevano più di parlare con noi, mentre se andassi al bar, fuori, chiunque dopo due minuti se ne vorrebbe andare».

Cambia il pregiudizio incontrandolo

La “biblioteca vivente” è uno spazio in cui è possibile “prendere in prestito” dei “libri viventi” e “leggere” le loro storie. I titoli possono essere asciutti o evocativi: il catalogo di Human Library UK conta 40 titoli estremamente didascalici – “gay”, “young black male”, “homeless”, “downs syndrome” – mentre in Italia sono diffusi titoli meno diretti, come i “Colori pazzi” e “Come un verme sdraiato”. “Sfogliando” le loro pagine per una mezz’ora, il “lettore” ha l’opportunità di incontrare un altro mondo, estraneo e lontano rispetto a quello a cui appartiene, di una distanza che non è una questione geografica ma culturale, fatta non di km ma di stereotipi e pregiudizi. Si sfoglia il catalogo, si prenota un titolo, ci si siede e si inizia una lettura che in realtà è un dialogo diretto, intimo, tra due persone che sanno di provenire da due universi estranei ma che accettano di mettersi in gioco, senza mediazioni: il titolo e la quarta di copertina sono un canovaccio che serve a orientare il lettore e a proteggere il libro (che può non rispondere alle domande, dicendo “questo capitolo non fa parte del libro”), ma nessun libro ripete mai due volte la stessa storia.

Il format è semplice, ma – con buona pace di Einstein – più potente di una fissione nucleare: «Social Contact – Conversation – Social Change», cambia il pregiudizio incontrandolo, la living library è tutta qua. Una sfida per chi legge e per chi si fa leggere, un’autobiografia che genera epistemologia, forma di conoscenza e di verità (se, come diceva Diderot, «l’ignoranza è meno lontana dalla verità del pregiudizio», qui si fa conoscenza della verità), narrazione che produce inclusione sociale ma anche nuove possibilità di educazione, riabilitazione e advocacy per i gruppi più vulnerabili o semplicemente più “etichettati”, come i vegani.

L’esperienza della “biblioteca vivente” è raccontata ora nel libro "Biblioteca Vivente – Narrazioni fuori e dentro il carcere", a cura di Ulderico Maggi, Paola Meardi e Cristian Zanelli, con un racconto di Gianni Biondillo (Altreconomia Edizioni).

Il cortocircuito fra pregiudizio e autobiografia

“Non giudicare un libro soltanto dalla sua copertina” è l’obiettivo della biblioteca vivente. Le metafore nell’ambito librario non sono un vezzo, ma un elemento importante del setting: «La scorsa primavera abbiamo presentato una biblioteca vivente centrata sui rom, a Roma. Era l’inizio di Roma Capitale e la Presidente della Camera ricevendoci ci ha chiesto se non temevamo assalti», racconta Ulderico Maggi, che nel 2011 con ABCittà ha avviato a Milano il progetto Biblioteca Vivente. «Non è mai successo. La biblioteca di per sé ha un’aurea di sacralità. La biblioteca vivente è uno strumento leggero e insieme profondo, gentile, in cui è fondamentale creare un contesto di rispetto per le persone, che non parlano in generale di cosa vuol dire essere “detenuto”, “rom”, “omosessuale”, ma di sé e della propria vita». La vita è il punto di forza: «l’unica chance per decostruire il pregiudizio è accostarlo a un’autobiografia», spiega Maggi. «Solo l’episodio conta, il lettore non viene per sentirsi dire che il suo pregiudizio “non è vero”», continua Cristian Zanelli, architetto, presidente di ABCittà. «È il lavoro che facciamo con i libri viventi durante la formazione: presentare la propria storia in questi termini è difficile, perché tendiamo a fare sintesi, non narrazione. Eppure è la chiave, perché anche chi ha più pregiudizi non può dire “non è vero” davanti al singolo fatto di vita».

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La forza dell’empatia

Ronni Abergel, Erich Kristoffersen, Asma Mouna, Thomas Bertelsen e Dany Abergel erano solo dei teenagers nel 1993, quando un loro amico fu ucciso in un brutale accoltellamento: per provare a cambiare le cose misero in piedi una ong, Stop the Violence, e inventarono la human library. Il primo evento fu proposto nel 2000 al Roskilde Festival, in Danimarca, e oggi la rete di humanlibrary.org conta esperienze in 70 Paesi, dalla Bielorussia alla California: l’ultima “prima volta” è stata al Cairo l’11 settembre 2015 (la prima in Africa e la prima nel mondo arabo), mentre a Lismore, Australia, è un appuntamento che si ripete ogni mese. Il Consiglio d’Europa nel 2003 ha inserito la living library nel suo programma, convinto che «i diritti umani non possono essere difesi e promossi solo attraverso testi di legge» e nel 2011 ha pubblicato “Don’t judge a book by its cover!”, una guida operativa per chi vuole organizzare eventi. Per Zanelli «il pregiudizio è un corpo vivo, entra ed esce dalla nostra testa, cambia, cresce e rimpicciolisce. Nessuno ne è immune. Il pregiudizio lavora a livello non razionale, come i suoi prodotti, paura e diffidenza. Di conseguenza è su quel livello che bisogna agire: se io porto una risposta razionale, ad esempio una conferenza, sono inefficace». Il successo di human library sembra dargli ragione, anche se misurare l’efficacia di un’esperienza del genere è complicato: «Quello che accade dentro di te durante la lettura di un libro umano è un fatto privato, non la vai a valutare – Pennac docet – però le “recensioni” che i lettori lasciano sono sempre molto positive», riflette Maggi. «A volte ci interroghiamo: andiamo a colpire solo chi è già sensibile? Io credo che il vero pericolo dei pregiudizi stia nella grandissima fascia grigia dell’indifferenza, di chi non spende tempo ed energie per diventare consapevole dei propri pregiudizi: noi peschiamo lì», spiega Zanelli.

Un processo, non un evento

Anche in Italia la biblioteca vivente si sta diffondendo. Le propongono da tempo a Bologna e a Torino, mentre Anteas la utilizza per promuovere l’incontro intergenerazionale. A Verona la Fondazione San Zeno ha realizzato nove edizioni dal 2010, con trenta libri formati. ABCittà in questi anni ha organizzato 16 eventi e formato 198 libri umani, di cui 70 parlano di detenzione. «Abbiamo preferito puntare su biblioteche monotematiche – carcere, rom, salute mentale, veganesimo – con tanti titoli che approfondiscono i diversi aspetti di un unico tema, ci pare che la biblioteca pluritematica rischi di promuovere ciò che cerca di abbattere, la stereotipizzazione delle figure», dice Zanelli. Per loro inoltre la biblioteca vivente «è un processo, non un evento», che parte con l’individuare localmente, anche attraverso indagini partecipate, il “catalogo dei pregiudizi”. Insieme alle associazioni del gruppo promotore, intanto, si cercano dei potenziali libri umani. A questo punto parte la formazione dei libri, a cui viene presentato l’elenco dei pregiudizi: ognuno segna il proprio nome accanto a quelli di cui sarebbe disposto a parlare e si iniziano a raccogliere gli episodi di vita. Da lì in avanti pregiudizi ed etichette scompaiono, per lasciare posto alle storie di vita. Gli episodi diventano i capitoli del libro, si scrive una quarta di copertina, si definisce il titolo, si fanno le prove di lettura, finché arriva il giorno dell’evento e quella mezz’ora di “prestito”: «Nessun libro racconta, tutti rivivono. La potenza dell’autonarrazione si amplifica perché diventa duale e dialogica» spiega Maggi.

Il vero tema allora diventa l’ascolto, l’empatia, la voglia di conoscersi e di capire. Qualcosa che un libro di carta o un nastro registrato non possono dare. La relazione che porta conoscenza, non solo emozioni. «Capita che il libro umano o il lettore durante la lettura si mettano a piangere. La biblioteca vivente non è “diventare amici”, ma in alcuni casi i lettori sono tornati in carcere o hanno iniziato a scrivere al libro che avevano letto. Il cambiamento non nasce solo dalla storia narrata, ma dalla relazione che accade», ribadisce Zanelli. Le scarpe degli altri non sono ancora gli altri.


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