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Droga

Una mamma: «Perché ho pagato l’ultima dose di mio figlio»

di Anna Spena

Il fondo esiste. Ha il viso giovane e rovinato di un ragazzo di 26 anni, che esce zoppicando dal boschetto di Rogoredo, a Milano. Si è appena iniettato una dose. Si è bucato sulla gamba. Sua mamma l'ha ritrovato e trascinato via. «Mio figlio doveva riempire un vuoto. La droga si è insinuata lì e l'ha quasi distrutto»

Il fondo esiste. Ha il viso giovane e rovinato di un ragazzo di 26 anni, che esce zoppicando dal boschetto di Rogoredo, a Milano. Con una siringa si è appena iniettato una dose nella caviglia fuori dalla vena. I 30 euro per quella dose – e per quella che poi si sarebbe iniettato la mattina successiva – glieli ha dati la sua mamma. «Lo dovevo portare via», racconta la signora F., 54 anni. «Mio figlio Andrea quei soldi non li voleva. Ma io gli ho detto: “Che cambia? Tanto un modo lo trovi e ti vai a fare lo stesso. Prendi i soldi e poi promettimi che torni indietro». E indietro Andrea è tornato. Ma questa storia inizia prima e la sua fine, invece, inizia una sera d’estate di fine giugno.

Qualche giorno fa Simone Feder, psicologo che lavora per da anni nelle strutture della comunità Casa del Giovane di Pavia dove è coordinatore dell'Area Giovani e dipendenze, e cerca di supportare i ragazzi che frequentano il boschetto di Rogoredo dove quotidianamente si consuma il dramma di migliaia di giovani, ha pubblicato sulla sua pagina Facebook un post commovente. Era la storia della signora F. e di suo figlio Andrea. Di una mamma che trascina fuori il figlio dal bosco di Rogoredo e ci crede: «Questa volta mio figlio ce la fa, sono sicura che ce la fa».

La droga si fa spazio per zittire una mancanza
Mio marito è morto quando Andrea aveva 13 anni. Prima che la malattia se lo portasse via ha combattuto per tre anni. Andrea al cimitero non è mai voluto andare, di suo padre ancora non parla. Io lo sentivo che aveva un vuoto dentro ma mi sono chiusa nel mio dolore e nella cura dell’altro mio figlio che allora aveva solo due anni. Gli insegnanti mi dicevano che “aveva una testina d’oro”. Ed è vero. Ma non lo dico perché è mio figlio. Andrea è intelligente per davvero. Ma dopo la morte del papà si è un po’ perso. Quando nella sua cameretta – ancora da bambino – ho trovato una canna, avrà avuto si e no 18 anni. “Mamma, non ti preoccupare”, mi diceva. È una cosa leggera, non succede niente. E poi, in poco tempo, ha lasciato che il mondo gli cadesse addosso.

La siringa
Andrea lavorava come carpentiere. Non guadagnava male, ma dopo cinque giorni lo stipendio evaporava. Quando stava a casa lo vedevo una, due, tre, quattro, anche cinque volte al giorno fare avanti e indietro dalla sua camera alla lavanderia, una stanza che si trova nel sottoscala dove abbiamo anche le scarpiere. Una mattina sono scesa per delle faccende domestiche. L’anta della scarpiera era socchiusa. Istintivamente l’ho aperta per scoprire una cosa che forse sapevo già: ho trovato una siringa. Mi è caduto il mondo addosso. Ho visto la siringa con cui mio figlio Andrea si bucava la pelle per farsi. Eroina? Penso sì. Ma credo che anche la cocaina se la iniettasse in vena. Lui ha negato “non è la mia. Non è la mia”. E poi ha ammesso: “ma a chi faccio del male? A nessuno”. Eccome se faceva del male. A se stesso e anche a me, al fratello, ai nonni che lo amavano. Ma in quei momenti di vuoto profondo non lo poteva capire. Frequentava brutte persone che gli garantivano soldi facili, chissà in che giro si era messo. Poi ha iniziato a rubare in casa: l’oro, i vestiti del fratello, i soldi che trovava, le scarpe. Tutto. Una mia borsa firmata: “l’ho prestata ad un’amica”, mi ha detto. “Domani te la riporto”. Ho iniziato a vivere come una carcerata in casa. Quando uscivo per andare a lavoro prendevo il bimbi, un elettrodomestico che costa 1800 euro, e lo chiudevo a chiave nella camera da letto. Ho fatto istallare le telecamere ovunque. Poi è entrato in comunità, ci è rimasto quattro mesi, è uscito e ha ricominciato. Una mattina mi ha detto: “Parto. Vado a Londra”. Lì è stato peggio. Un giorno d’inverno sono partita anch'io per andare a riprendermi mio figlio. Non c’era più. Stava tornando in Italia. L’hanno ospitato i miei genitori per qualche tempo, ma ha rubato di tutto anche a casa loro. È tornato a casa nostra e poi è scomparso ancora.

Il fondo
Io non ce la facevo più. Ho fatto istallare le telecamere anche nel vialetto di casa per vedere se la notte tornava a dormire sotto il nostro portico. Non è mai tornato. Ho provato a denunciare la sua scomparsa ai carabinieri, ma mio figlio era già maggiorenne. “Può fare quello che vuole”, mi hanno detto. Ma quello che voleva era distruggersi la vita. Una mattina mi arriva una foto: “Ciao F. hanno visto tuo figlio che dorme per strada a Milano insieme ai senza fissa dimora”. Mio figlio, un barbone. Mio figlio mangiato dalla droga. Lo trovano, ma non vuole farsi aiutare. Non vuole entrare in comunità. E non torna a casa: si vergogna. Una mattina esco di casa. Mi porto la sua foto dietro. Giro per tutta la città: “Conosce mio figlio?. Ha visto questo ragazzo?”. Il vuoto. Poi arrivo al boschetto di Rogoredo. Chiedo, e nessuno dice di averlo visto. È mezzanotte, sono sulla strada diritorno verso casa. Squilla il telefono: “Mamma”. Torno indietro e mentre ripercorro quelle strade al contrario mi pento delle cose che la disperazione mi ha portato a pensare. Quando qualche ora prima ho visto l’ambulanza che distribuiva le siringhe mi ero detta: “che si infettino tutti. Ma perché la polizia non entra e distrugge tutto”. Ma quella notte, dopo mesi, ho riguardato gli occhi di mio figlio, dentro ho visto solo disperazione, quella che credevo di sentire io. Mio figlio era un cadavere.

E così torniamo all’inizio della fine
A casa non voleva tornare perché aveva bisogno di drogarsi ancora. “Vi faccio diventare tutti matti”, diceva. "Resto qui". Gli ho dato i soldi. Si è comprato due dosi. Una l’ha fatta subito, da solo – insieme ai soli come lui – nel bosco. E tornato che zoppicava. Si è iniettato una dose nella caviglia fuori dalla vena. Siamo tornati a casa insieme. Si è lavato e poi ha mangiato, mangiato, mangiato. La mattina dopo è sceso in lavanderia. Si è fatto un'altra dose, l’ultima. Lo sento. Quella stessa mattina abbiamo iniziato il percorso in comunità. “Mamma grazie che mi hai portato via dal bosco”. Quanti Andrea ci sono dentro al bosco? Quante vite si porta via la droga? Me lo domando spesso. Mio figlio non era un tossico, sì forse era anche tossico, ma non era perso. Doveva toccare il fondo e poi ricominciare. Andrea doveva riempire un vuoto. La droga è si è insinuata lì. Lo so. Quando è morto il papà. Ora deve imparare a lavorare su quel vuoto non a riempirlo con qualcosa. Solo chi è mamma di un figlio drogato può capire fino in fondo cosa fa la droga. Eppure un figlio è un figlio. Alle altre mamme dico, non nascondete i vostri figli. Non li lanciate in piazza sulle gogne, certo. Ma non li nascondete, e non nascondete a voi stesse la loro dipendenza. Più che altro affrontatela, trascinateli fuori dal bosco.


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