Salute

Pedalare in tandem, la ricetta per riabilitare le persone con fragilità

di Luigi Alfonso

La psichiatra veneta Roberta Sabbion, esperta in dipendenze, sta applicando con successo questo strumento nella terapia della Azienda sanitaria di Vicenza. Con la speranza che altre Asl italiane la prendano a modello. Attenzione, però: non basta salire sulle due ruote per risolvere i problemi dei pazienti con particolari criticità. Ora il progetto parte in Sardegna, grazie a Domu Mia

Quattro tandem nuovi fiammanti sono stati consegnati nel week end all’associazione Domu Mia di Muravera. Si tratta di quattro mezzi acquistati grazie al finanziamento concesso dalla Fondazione Vismara, che ha riconosciuto nel progetto “Pedala e vai!” indiscutibili meriti e peculiarità sociali. «Grazie all’aiuto della Fondazione Vismara possiamo far partire un’iniziativa che, dal nostro paese, vogliamo esportare in altri territori della Sardegna», commenta raggiante il presidente dell’Aps, Ninni Santus.

Nello scorso week end i tandem sono stati testati al cospetto dei TanDemoni, il nome che si sono attribuiti gli artefici del progetto lanciato un paio di anni fa da Cycling Pangea in collaborazione con i Centri di salute mentale – Csm, i Servizi per le dipendenze – Serd, l’Ufficio esecuzioni penali del Veneto (Uepe), la Uisp e la Società italiana di montagna-terapia. Con Roberta Sabbion, psichiatra e direttrice del Dipartimento dipendenze della Ulss 8 di Vicenza, cerchiamo di capire l’impatto di questo progetto. È appena rientrata in Veneto, lei che è originaria di Padova, dopo l’esperienza maturata all’Asfo di Pordenone. E continua l’esperienza con i tandem. Ecco come è nata l’idea. «Il primo passo è stato quello della riabilitazione in ambiente, cioè la possibilità di uscire da uno spazio di cura (all’interno del quale le persone vanno per curare una parte malata) per entrare in un contesto di salute, dove ogni singola persona deve mettere in gioco la sua parte sana. È il presupposto della montagna-terapia».

Perché andare sulle due ruote piuttosto che fare trekking o belle escursioni? «Lo strumento “camminare” può andare bene in alcuni contesti. Ma ci sono alcune disabilità che non consentono sempre un libero cammino», spiega la dottoressa Sabbion. «La prima esperienza specifica fatta da una coppia (Alessandro Da Lio e il cognato Lucio Morosin avevano percorso in tandem 20mila km dal Canada alla Terra del Fuoco, ndr), è stata eccezionale: ci ha permesso di capire che non ci sono limitazioni fisiche o psichiche per poter osare molto. Lo strumento tandem permette di raggiungere obiettivi terapeutico-riabilitativi diversi da altro. Per esempio, il tandem ti obbliga a un rapporto a due di compromesso, che è una delle cose più difficili della vita. Ti obbliga a mediare con l’altro per raggiungere insieme l’obiettivo prefissato e ti mette nella condizione di aumentare, dal punto di vista sensitivo, la conoscenza dell’altro».

«Il tandem va benissimo per tante problematiche. In alcune di esse, e in alcune fasi del percorso terapeutico, si è rivelato uno strumento altamente incentivante per quegli obiettivi», commenta la psichiatra veneta. «Siamo partiti da un’esperienza di vita concreta, all’interno della quale uno dei due soggetti non aveva trovato nella sanità classica qualcuno che lo autorizzasse a partire. Valutando le difficoltà e lo strumento tandem che ti metteva in relazione con l’altro in questo preciso modo, abbiamo stabilito che si trattava di una esperienza “fatta”, e da qui abbiamo pensato di utilizzarlo per potenziare questi aspetti che aiutano ad aggiungere autonomia alle persone con fragilità».

Ci sono molte analogie con l’arrampicata sportiva. «È vero, ricorda il rapporto tra chi arrampica e chi tiene la corda. Ma mentre in questa disciplina abbiamo due attività diverse e complementari, nel tandem abbiamo una stessa attività che richiede competenze differenti: è vero che tutti e due pedalano, ma soltanto quello davanti è alla guida del mezzo e deve lavorare su alcune caratteristiche, mentre quello che sta dietro deve lavorare sulla fiducia nell’altro. C’è tutto un lavoro che permette di riabilitare alcune parti e abilitarne altre, cioè crearle da zero. Le neuroscienze ci aiutano a capire che questo tipo di esperienza è utile anche quando la applichiamo a pazienti per i quali si parla di “neuroni bruciati”. Ebbene, è possibile riattivarli e ottenere buoni risultati».

È decisamente singolare che questa sperimentazione stia avvenendo in un’Azienda sanitaria pubblica. «Ci tengo a sottolineare la lungimiranza mostrata dall’Ulss 8 che mi ha accolto e ha inserito tutta l’attività riabilitativa in ambiente tra quelle istituzionali già previste», commenta Sabbion. «Lo dico con convinzione e aggiungo che dovrebbe essere presa ad esempio dalle altre Aziende sanitarie italiane perché, dal mio punto di vista, è questa la vera riabilitazione: lo dico dopo 40 anni di lavoro in questo ambito. La vera abilità dei professionisti è capire con quale strumento perseguire determinati traguardi. Il tandem diventa uno strumento per obiettivi molto ampi. Usciamo dalle quattro mura della cura, dove la persona porta le parti malate, ed entriamo nel mondo “ambiente” della salute dove le persone sono costrette a portare le parti sane. E a potenziarle».

In questi giorni il team veneto è passato dalle montagne maestose del Nord-est italiano alle più dolci vallate del Sarrabus Gerrei, in Sardegna. «Ma non è mica un problema di pendenza, sa? Certo, un percorso può essere più o meno impegnativo, ma conta di più l’ambiente. Il primo termine coniato in questo ambito è stato “montagna-terapia”, e noi abbiamo voluto conservarlo nella nostra esperienza. Ma conta la riabilitazione in ambiente. Lo strumento tandem è ottimo identificando obiettivi precisi: la relazione, il capirsi, la mediazione per arrivare all’obiettivo. Il tandem è “in due parti e in due arrivi”. È il passaggio dall’individualità alla condivisione, fidandosi l’uno dell’altro. Cioè la base della riabilitazione terapeutica, in quanto ripropone il rapporto tra operatore e paziente».

La dottoressa Sabbion precisa poi in quali patologie sono stati ottenuti i migliori risultati. «Lo spettro d’azione è abbastanza ampio. Comprende persone ipovedenti o addirittura cieche, persone con diverse disabilità di natura fisica o psichica, con disturbi cognitivi oppure con dipendenze conclamate. Quest’ultimo è il mio settore specifico, e devo dire che lo applichiamo bene nelle fasi avanzate del percorso terapeutico e non nel primo periodo. Ecco perché dico che bisogna identificare gli obiettivi e le fasi in cui si trovano le persone con queste fragilità. Ogni strumento risulta sbagliato se non individui la diagnosi corretta. Non ci si può improvvisare operatori dell’ambiente: rischi di perdere la persona. Devi intervenire nella fase giusta. Faccio un esempio di grande attualità: se dico a un ragazzo hikikomori di uscire dalla stanza in cui si è rinchiuso e salire su un tandem per iniziare questa terapia, vado incontro a un fallimento sicuro. Prima deve iniziare un percorso terapeutico che gli consenta di aprire uno spiraglio di movimento: lì si può intervenire. Non vale soltanto per il tandem, sia chiaro. Lo strumento non è risolutivo indipendentemente dalla fase del percorso. Il tandem, in una comunità terapeutica, ha un valore aggiuntivo perché con quelle persone è possibile rielaborare ciò che è accaduto durante l’esperienza. Senza rielaborazione, ogni strumento in ambiente è inutile. Non è terapeutica l’attività in sé, bensì l’attività con determinati strumenti e la conseguente rielaborazione. Per chi ha una certa fragilità, non è tanto l’andare in montagna che fa bene: è fondamentale comprenderlo, sennò ci stiamo dicendo che in quei casi fa bene semplicemente andare a fare le passeggiate».

Le emozioni me le concedo tutte. Mi sono commossa più volte quando un paziente ha raggiunto risultati straordinari

Roberta Sabbion, psichiatra

Pur essendo una psichiatra, dunque abituata a controllare le emozioni nel lavoro, Sabbion ammette di essersi commossa più di una volta nel vedere un paziente raggiungere risultati significativi. «Le emozioni me le concedo tutte», confessa. «Per esempio, nell’ultima esperienza fatta tra il 30 marzo e il primo maggio scorsi nel percorso da Trapani a Trieste: all’arrivo ho pianto e non me ne vergogno. Lo stesso quando in tandem siamo andati da Venezia a Matera. In quella occasione pedalai con un mio paziente di Pordenone, che guidò il nostro tandem. Si trattava di una persona con un carattere molto particolare, con varie esperienze di carcere. Era considerato il terrore del servizio dipendenze. Quando al centro arrivava lui, c’era un’allerta massima. Bene, questa persona ha guidato il tandem in maniera impeccabile, e ora si è sganciato dal servizio. Mi ha commosso vedere un uomo, considerato l’ultimo del mondo, raggiungere una dignità e un’autovalutazione di sé nettamente diversa da quella che aveva prima. Ha ripreso la vita in mano e trovato la piena autonomia.

È la conferma che c’è sempre una speranza per tutti. «Deve esserci per forza nella testa di chi lavora con tutte le fragilità. Se come operatore penso di avere a che fare con persone con cui non c’è alcuna chance, ho un atteggiamento che trasmette fallimento. Se invece lavoro con il convincimento che sinché la persona respira può cambiare, ho un atteggiamento completamente diverso, propositivo. È questo che voglio trasmettere. L’atteggiamento dell’operatore verso una fragilità condiziona moltissimo l’evoluzione della fragilità stessa. Credo che gli operatori di Domu Mia abbiano lo spirito e le competenze giusti per fare un ottimo lavoro».


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