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Kenya, si muove ladiplomazia delle ong Distribuzione di cibo, medicine, acqua. Ma non solo: le organizzazioni non governative si impegnanonella ricerca della pacificazione di Emanuela Citterio
africa in fiamme La mappa dell'intervento umanitario
di Redazione

Assistere, informare e, dove è possibile, provare a mediare. Organismi non governativi e società civile stanno affrontando così la crisi che sconvolge da oltre un mese il Kenya.
A mobilitarsi per prime sono state le organizzazioni radicate sul territorio keniano. Caritas Kenya è intervenuta raccogliendo i bisogni segnalati dalle 16 diocesi cattoliche del Paese più colpite dagli episodi di violenza. Dopo una prima distribuzione di cibo, coperte, zanzariere, teli per tende e utensili per cucinare a circa 60mila persone nelle aree più colpite (fra cui Eldored, Mombasa, Nairobi e Nakuru), ha lanciato un appello alla rete internazionale Caritas per 1,8 milioni di euro, per affrontare un’emergenza che sta assumendo proporzioni sempre più preoccupanti. «I fondi serviranno a prestare assistenza agli sfollati, ma anche ad aiutare le comunità locali a ricreare le condizioni del dialogo con seminari, incontri e tutto ciò che potrà servire per promuovere iniziative di riconciliazione», spiega Giovanni Sartor, dell’ufficio Africa di Caritas italiana.
Sul fronte dell’assistenza sanitaria una delle prime organizzazioni a intervenire è stata Amref, grazie al proprio radicamento sul territorio. Amref è nata in Kenya, ha il suo quartier generale a Nairobi, 38 progetti nel Paese e può contare su uno staff di circa cinquecento persone, quasi tutte keniane. «Accanto all’assistenza abbiamo considerato una priorità l’informazione continua e puntuale su quanto sta accadendo», spiega dalla sede italiana Pietro Del Soldà. Il sito di Amref Italia pubblica ogni giorno più pezzi di cronaca e analisi inviati da Thommy Simmons, vicepresidente dell’organizzazione che vive in Kenya con moglie e due figli.
Sul fronte della mediazione si è mossa fin da subito Africa Peace Point, organizzazione locale legata al missionario comboniano Kizito Sesana e sostenuta in Italia dalla onlus Amani. App già all’inizio di gennaio chiedeva l’istituzione di una commissione internazionale indipendente per far luce sulle violenze. In un appello ha segnalato i bisogni più urgenti della popolazione: cibo, medicine, acqua e assistenza sanitaria e logistica per gli sfollati ma anche iniziative di riconciliazione.
La geografia delle violenze nel frattempo è cambiata. All’inizio gli episodi sembravano più di natura politica e localizzati nelle città, poi sono aumentati gli scontri interetnici, soprattutto nella regione della Rift Valley, e a Nakuru in particolare. «Tutto l’Ovest del Kenya, da Nakuru fino a Eldoret e Kisumu, rischia di entrare in uno stato di permanente agitazione e insicurezza, staccato del resto del Paese», fa sapere padre Kizito Sesana. A Nyahururu, pochi chilometri da Nakuru, l’organizzazione comunitaria Saint Martin, sostenuta anche dalla Provincia di Trento, ha accolto oltre duemila profughi provenienti dall’Ovest. «A farsene carico sono state una ventina di comunità locali legate al Saint Martin», spiega Fabio Pipinato della Fondazione Fontana di Trento. «Capita così che dei kikuyu accolgano dei luo e viceversa. Si cerca di interrompere la catena dell’odio e delle vendette, ma non è facile». La Fondazione Fontana per affrontare l’emergenza ha messo a punto un primo progetto da 30mila euro, che sarà cofinanziato dalla Provincia di Trento.
Le ong che operano in Kenya incontrano però difficoltà logistiche. Alcune strade, come quella che da Nairobi porta a Nakuru, sono interrotte. «In due slum di Nairobi nei quali operiamo è impossibile accedere per ragioni di sicurezza», afferma Paola Grivel, coordinatrice dei progetti di Coopi a Nairobi. La ong locale con la quale Coopi collabora, Pamoja Trust, ha messo a punto un programma di emergenza per aiutare la gente degli slum e programmato una serie di incontri con i leader delle diverse etnie.
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