Welfare
La casa dov’è? Così il dibattito sulla deistituzionalizzazione è tornato a infiammare il mondo della disabilità
Superare la logica delle strutture e delle risposte standardizzate è uno degli obiettivi della riforma sulla disabilità. Ma per alcuni i decreti che dovrebbero attuarla peccano in questo senso e le grandi federazioni non pungolano abbastanza per via del conflitto di interesse di chi è anche ente gestore. Gli istituti - e le alternative possibili - sono così di nuovo al centro di un confronto acceso tra associazioni, comitati e cittadini attivi

In questi giorni, un acceso dibattito sta attraversando il mondo delle associazioni e delle persone che si occupano dei diritti delle persone con disabilità. Un lungo botta e risposta attorno al tema dell’istituzionalizzazione. La Legge delega 227 del 2021 – l’attesa riforma della disabilità, che al momento sta riguardando solo un numero limitato di province e che arriverà a coinvolgere l’intero Paese nel 2027 – era molto chiara su questo punto: attraverso lo strumento del progetto di vita, l’obiettivo è la deistituzionalizzazione. Per alcune associazioni e comitati, però, le norme che dovrebbero darvi attuazione – in particolare il Decreto legislativo 62 del 2024 – smorzerebbero questa visione, per non dire che la perderebbero del tutto.
Libertà di scegliere dove e con chi vivere, dice la Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità. Superamento delle risposte standard, ripete con convinzione la ministra per le Disabilità Alessandra Locatelli. «Non è accettabile che si risponda ancora ai temi che riguardano le persone con disabilità limitandone la libertà personale», afferma decisa Simona Lancioni, responsabile di Informare un’h – Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli. «Bisogna rispettare l’articolo 19 della Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità, che parla di vita indipendente e libertà di scelta, in condizione di uguaglianza con gli altri. Nel 2016, nelle osservazioni conclusive del primo rapporto sull’attuazione della Convenzione, l’Italia era stata invitata a smettere di finanziare istituti, spostando invece quelle risorse su progetti che consentano alle persone di vivere con la stessa libertà di scelta degli altri. La riforma aveva questo scopo, ma il Decreto legislativo 62 va in una direzione diversa, stabilendo che esistano situazioni in cui la possibilità di decidere possa essere limitata. Alcuni – anche fra i rappresentanti di grandi associazioni – ritengono che nei “casi” più complessi deistituzionalizzare significa abbandonare la persona, ma non è così: le alternative ci sono, basta pensare a quello che fanno alcune realtà come la Fondazione Time 2 in Piemonte (che mette in campo attività di promozione della vita autonoma e indipendente e spazi condivisi per persone con e senza disabilità, ndr)».
Secondo Vincenzo Falabella, presidente di Fish – Federazione italiana per i diritti delle persone con disabilità e famiglie, non si può continuare a ignorare una realtà evidente: esistono situazioni in cui il bisogno di assistenza per una persona con disabilità è talmente elevato che la famiglia, soprattutto nel momento in cui i caregiver diventano anziani, fatica a gestire tutto da sola. In questi casi, è necessario poter contare su strutture adeguate, che offrano assistenza qualificata e rispettosa della dignità della persona.
«Parliamo ovviamente di comunità non segreganti, in grado di garantire sollievo alla famiglia e una vita dignitosa alla persona con disabilità», sottolinea Falabella. Ma come assicurare davvero questi standard, considerando i numerosi casi di cronaca che evidenziano abusi o violazioni? «Le strutture devono essere aperte, accessibili alle famiglie in qualsiasi momento. Questo garantirebbe trasparenza e aiuterebbe a prevenire situazioni ai limiti della legalità, se non addirittura in violazione del Codice penale. Allo stesso tempo, dobbiamo sviluppare un sistema di residenzialità diffusa per chi desidera vivere da solo, adeguato alle sue esigenze specifiche».
Affinché ogni persona possa decidere liberamente come e dove vivere, è essenziale costruire un sistema capace di rispondere a bisogni molto diversi. «La Legge Delega va in questa direzione», afferma Falabella, «ma servono risorse concrete per trasformare i principi in realtà. Oggi, le strutture sono finanziate principalmente dal Fondo Sanitario Nazionale. Se utilizzassimo quelle stesse risorse – ad esempio 4mila euro al mese – per offrire interventi a domicilio, potremmo permettere a molte persone di vivere dignitosamente a casa propria, spesso persino con costi inferiori».
Tuttavia, uno degli ostacoli maggiori al cambiamento è rappresentato dagli interessi consolidati degli enti gestori delle strutture residenziali. Molte di queste realtà, attive da anni nel settore, ricevono importanti fondi pubblici – spesso nell’ordine di milioni di euro – e ciò rende più difficile una reale redistribuzione delle risorse verso soluzioni alternative. Come fa notare l’attivista Lancioni, «in Italia alcune associazioni, pur avendo una funzione di advocacy, sono anche enti gestori: questo comporta un conflitto di interessi, che si riflette anche all’interno dell’Osservatorio Nazionale sulla condizione delle persone con disabilità».
«Quello del conflitto di interessi tra advocacy e gestione di servizi è un tema importante, ma generalizzare è rischioso», replica Falabella. «Non sempre le associazioni che gestiscono delle strutture agiscono in contrasto con i principi dell’advocacy: molte lo fanno proprio per sopperire alla carenza di servizi pubblici, mantenendo trasparenza e coerenza con la tutela dei diritti. Insinuare che tutte le associazioni siano condizionate da interessi economici senza prove concrete rischia di delegittimare ingiustamente una parte del settore impegnato da anni nella difesa delle persone con disabilità». Da sempre, invece, aggiunge Falabella, «contestiamo con forza chi, in modo strumentale, utilizza la disabilità per scopi personali, politici o economici, danneggiando proprio le persone che dice di voler rappresentare. È contro queste derive che va mantenuta alta la vigilanza, non contro chi ogni giorno lavora per garantire diritti, servizi e dignità».
All’interno di Fish, in ogni caso, il tema dell’istituzionalizzazione non è una novità. «Lo affrontiamo da tempo», chiarisce Falabella. «Ed è naturale che, all’interno di una federazione che raccoglie realtà molto diverse, esistano anche su questo tema delle posizioni articolate. Alcune situazioni, infatti, sono così complesse da rendere pressoché impossibile una vita autonoma al domicilio, soprattutto in assenza di adeguati servizi territoriali. In questi casi, quando la famiglia non riesce più a farsi carico della persona, l’istituto resta l’unica soluzione disponibile».
Il problema principale, denuncia Falabella, è la carenza di risorse per sviluppare su larga scala modelli alternativi alle strutture tradizionali. E, ad oggi, non è ancora chiaro se e come sarà possibile riallocare i fondi del Fondo Sanitario Nazionale destinati alle comunità, che spesso offrono servizi troppo standardizzati e poco personalizzati.
Spingere per la deistituzionalizzazione, precisa infine Falabella, non significa volere la chiusura indiscriminata delle strutture specializzate, soprattutto di quelle che funzionano bene. «Chiediamo un welfare che riconosca la dignità della persona. Non si può dire a priori che vivere in comunità sia sbagliato e che restare a casa sia sempre la scelta giusta. Non tutti desiderano avere come caregiver un familiare, e le esigenze sono diverse da persona a persona. Finora, il nostro sistema ha proposto un modello standardizzato. Oggi è il momento di superarlo, costruendo risposte su misura, che permettano a ciascuno di scegliere davvero cosa fare della propria vita».
Per rendere tutto questo possibile, però, serve anche una visione economica di lungo periodo. «Una volta avviato un intervento o un servizio, questo non può dipendere dai bilanci statali, regionali o comunali, né essere interrotto dopo due anni per la scadenza di un progetto. Deve durare finché serve alla persona, fino alla fine della sua vita».
La foto in copertina ritrae un momento di vita quotidiana in uno dei due appartamenti del Centro Papa Giovanni XXIII di Ancona. Nelle due comunità residenziali vivono complessivamente 16 persone con disabilità. Volete raccontare la vostra esperienza innovativa di residenzialità? Scriveteci a redazione@vita.it
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