Medio Oriente
La Cisgiordania dimenticata
Tre milioni di persone vivono tra checkpoint, chiusura della città, incursioni dell’esercito israeliano, aggressioni da parte dei coloni. La vita dei palestinesi in Cisgiordania non era facile neanche prima del 7 ottobre, ma dopo quel giorno la situazione è degenerata
di Anna Spena
Sulla riva occidentale del fiume Giordano la vita di tre milioni di persone si rimpicciolisce e blocca a seconda dei movimenti dell’esercito israeliano. Si svuota di quotidianità e si riempie di paura ad ogni checkpoint, ad ogni incursione, ad ogni attacco ingiustificato e violento da parte dei coloni israeliani che vivono nei territori illegalmente occupati (la presenza di Israele nei Territori Palestinesi Occupati è illegale) a danno dei civili. La vita dei palestinesi che vivono in Cisgiordania non era facile neanche prima del 7 ottobre, ma dopo quel giorno la situazione è degenerata.
I numeri di una tragedia silenziosa
Tra il 7 ottobre 2023 e il 9 settembre 2024, 674 palestinesi sono stati uccisi in Cisgiordania, inclusa Gerusalemme Est (dati Ocha – Ufficio delle nazioni unite per il coordinamento degli affari umanitari). 658 persone sono state uccise dalle forze israeliane, undici da coloni israeliani. Per sette non è noto. Un rapporto di Defence for Children International mette in evidenza un altro dato drammatico: tra il 7 ottobre 2023 e il 31 luglio 2024 oltre 140 bambini palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane e dai coloni nella Cisgiordania occupata. Intanto mentre tutti i riflettori sono puntati sulla Striscia di Gaza e sul confine fra Israele e Libano, nel disinteresse generale in Cisgiordania si sta consumando il de profundis del diritto internazionale: dall’inizio del conflitto tra Israele e Hamas sono stati sottratti altri 23 km quadrati di terra ai palestinesi (in tutti i 25 anni precedenti erano stati 28). Ne ha scritto Paolo Bergamaschi in questo articolo: «Cisgiordania, così il governo Netanyahu si “mangia” la terra dei palestinesi».
Jenin, Hebron, Nablus e ancora Tulkarem, Tubas, Betlemme, Ramallah, Jericho, non c’è città della Cisgiordania che non sia stata in qualche modo colpita o coinvolta. Abbiamo chiesto ad operatori e operatrici umanitarie, internazionali e palestinesi, che lavorano in Cisgiordania come la vita quotidiana sta cercando nuovi modi per rimanere in piedi e anche come il lavoro delle ong e della cooperazione internazionale rallenta, si blocca o si modifica a seconda delle condizioni di sicurezza.
Il silenzio e i mercati vuoti
«Io sono una rifugiata palestinese», racconta Riham Jafari, coordinatrice della comunicazione e dell’advocacy di ActionAid Palestina. «Sono nata del campo profughi di Dheisheh a Betlemme». Il campo profughi di Deheisha è stato fondato nel 1949, a seguito della nakba del 1948, l’esodo forzato della popolazione araba palestinese, dopo la fondazione dello Stato di Israele. È uno dei 19 campi profughi ufficiali di tutta la Cisgiordania. All’inizio copriva 0,31 kmq di terra, successivamente è arrivato a 1,5 kmq, come conseguenza della crescita naturale della popolazione. Era stato pensato per 3mila persone, palestinesi provenienti da 45 villaggi a ovest di Gerusalemme e Hebron fuggiti durante la guerra. Oggi, secondo i dati dell’Unrwa, qui invece vivono più di 19mila persone. «La vita dopo il 7 ottobre», continua Jafari, «è diventata più difficile. E non parlo solo delle restrizioni, degli assalti, dei blocchi stradali e della tensione che può esplodere da un momento all’altro. Parlo anche dell’intimità delle persone: le occasioni felici vengono celebrate nel silenzio».
Riham Jafari la Cisgiordania di oggi la descrive con questa immagine: «I mercati sono vuoti, le persone hanno paura». ActionAid è presente con i suoi interventi sia a Nord che a Sud della Cisgiordania, e lavora soprattutto per supportare i giovani e le donne. «Ma ora abbiamo grandi difficoltà ad incontrare in presenza le persone, alcuni dei nostri interventi sono diventati online». Riham Jafari è una cooperante che con la sua organizzazione prova a sostenere la popolazione palestinese, ma allo stesso tempo è una donna palestiense e anche i ritmi della sua vita privata, non solo di quella lavorativa, sono scanditi dai movimenti della guerra. «C’è un posto che amo molto in Palestina, è il mio posto preferito», dice. «Si chiama Al-Makhror, vicino a Beit Jala». Beit Jala è una città palestinse a circa 10 km a Sud di Gerusalemme, sul lato occidentale della strada per Hebron, di fronte a Betlemme. «È una zona verde, una delle aree più belle della Palestina. Ora è diventato pericoloso andarci, la vogliono confiscare i coloni. La verità è che tutti i civili palestinesi sono presi di mira nei territori palestinesi occupati e non hanno protezione. Le pratiche illegali israeliane sono commesse ovunque e ovunque restano impunite. La vita normale è scomparsa in tutte le città. Credo che in Occidente quello che non si vede è che la negligenza e l’incapacità della comunità internazionale di trovare una giusta soluzione alla causa palestinese e porre fine all’occupazione e al blocco illegale imposto a Gaza per 17 anni è stata la causa principale e principale di questa guerra brutale. La comunità internazionale dovrebbe mobilitarsi per riconoscere e garantire i diritti dei palestinesi secondo quello che è il diritto internazionale».
Blocco totale
Stefano Osti è project manager per Fondazione Cesvi nel Paese. Vive qui da oltre due anni. Il 7 ottobre del 2023, il giorno dell’attacco di Hamas, se lo ricorda bene: «Le esplosioni nel cielo e poi le notizie confuse della mattina che poco alla volta diventavano più chiare», ricorda. «Chiunque conosca la Palestina e la regione ha iniziato a temere la risposta israeliana. Già nell’anno precedente i livelli delle violenze sulla popolazione palestinese della Cisgiordania erano in grave aumento, toccando livelli che non si raggiungevano da circa vent’anni, sia rispetto al numero delle vittime che a quello degli attacchi».
Fondazione Cesvi è presente a Betlemme e a Hebron. «A Betlemme», dice Osti, «lavoriamo nel campo rifugiati di Dheisheh per sostenere la comunità migliorando il sistema di raccolta e riutilizzo dei rifiuti del campo. Nel governatorato di Hebron, invece, lavoriamo all’interno delle scuole pubbliche per migliorare l’accesso ad acqua pulita e sicura e riabilitando le infrastrutture idriche che servono gli istituti». Dal 7 ottobre e per tutta la settimana successiva Israele aveva imposto un blocco totale dei movimenti dei palestinesi. «Gradualmente», racconta Osti, «alcune limitazioni sono state allentate. Ma a intervalli più o meno regolari queste vengono reintrodotte tenendo la popolazione sotto costante pressione fisica, psicologica ed economica. Dallo scorso novembre Israele ha bloccato anche i trasferimenti delle tasse sul valore aggiunto che raccoglie per l’Autorità Palestinese, rimesse su cui si basa quasi interamente il budget pubblico palestinese. Sommato alla totale assenza di turisti e alla revoca di tutti i permessi lavorativi per recarsi in Israele, questo significa per i palestinesi una grave crisi economica. Molti non ricevono uno stipendio da ottobre». Qualunque aspetto della vita in Cisgiordania è compromesso: «Lavorare è complicato», dice Osti. «Le restrizioni dei movimenti riguardano tutti quindi sia per il nostro staff locale, che per i nostri partner o i beneficiari dei progetti è difficile muoversi. I viaggi possono durare molte ore anche quando la distanza da percorrere è di pochi chilometri. Poi avvengono migliaia di arresti indiscriminati ogni mese, senza capi d’accusa e quindi possibilità di difendersi. La popolazione palestinese è sotto fortissimo stress. Gli attacchi dell’esercito e dei coloni israeliani a persone, proprietà e infrastrutture pubbliche palestinesi sono quotidiani. A causa delle condizioni di sicurezza, siamo stati spesso costretti a rimandare o cancellare alcune attività pianificate sul campo. Anche gli spostamenti dei materiali sul territorio sono stati notevolmente ridotti, mentre i prezzi per qualunque fornitura sono aumentati di molto».
Il nord del Paese, con le città di Jenin, Tubas, Tulkarem, è stato il più colpito dal conflitto, (l’abbiamo raccontato in questo articolo “Jenin, l’operatore umanitario: «I civili sono ostaggio degli attacchi e della paura»”) e in Cisgiordania, spiega Osti, «non esiste una forza di sicurezza che tuteli i palestinesi, che in questi casi non hanno nessuna istituzione, o autorità o organizzazione a cui possano appellarsi, e quindi assistono impotenti alla distruzione. Tutta la Cisgiordania è in una situazione di totale emergenza mai vista prima. Con la catastrofe umanitaria di Gaza che catalizza l’attenzione dei media di tutto il mondo, la crisi della West Bank è meno “visibile”, ma si sta intensificando ogni giorno più del precedente. Gli sfollamenti forzati della popolazione palestinese da alcune aree della Cisgiordania sono a livelli record».
Poi Osti ripensa a com’era prima: «Betlemme, per esempio, era una città vivace, con una presenza di turisti e pellegrini, specialmente nella piazza davanti alla chiesa della Natività, e le vie commerciali intorno. Oggi è una città vuota. Molti negozi hanno chiuso, i ristoranti e gli hotel sono vuoti». Muoversi tra le città della Cisgiordania significa sottostare agli orari dei checkpoint: «Israele li chiude sempre più spesso. Questo impedisce alla popolazione di vivere una vita che però di normale non aveva nulla nemmeno prima dell’ottobre 2023. Oggi tanti preferiscono stare in casa. Tutto questo succedeva anche prima del 7 ottobre, ma con meno frequenza. Il timore ora è che Israele stia facendo passi concreti per un’annessione formale della West Bank, in tal senso vanno tutte le espansioni delle colonie (e la creazione di nuove), che da ottobre procedono a ritmi inediti. C’e’ stato un lavoro decennale, cosciente o meno, di politica e media nel deumanizzare la popolazione palestinese, che purtroppo continua ancora oggi. Solo una tale disumanizzazione può permettere di rimanere indifferenti di fronte ad un massacro e ad una crisi di questa portata. Le persone qui vogliono solo una cosa: la possibilità di vivere la loro vita in tranquillità».
La gabbia
Giovanna Fotia, la rappresentante Paese di WeWorld in Palestina, ha una città del cuore: «Hebron», dice. Trenta chilometri a sud di Gerusalemme, 215mila abitanti palestinesi, 700 coloni israeliani ebrei che vivono nel centro storico, a cui se ne aggiungono altri settemila della contigua colonia israeliana di Kiryat Arba. «Questa città», continua, «è l’emblema di quello che rappresenta la Palestina oggi». L’intera Cisgiordania è suddivisa in aree: A, B e C. che si differenziano nell’estensione e nel tipo di occupazione che le forze israeliane possono esercitarvi. L’area A è sotto il controllo dell’autorità palestinese, in quella B la gestione dovrebbe essere condivisa tra le due, l’area C è sotto il controllo israelino: continua a crescere e qui sono concentrate le colonie. Ma Hebron è ancora un’altra storia: la città è divisa in due zone H1 e H2, la prima palestinese, la seconda israeliana, dove vivono i 700 coloni.
«Il checkpoint nella città vecchia e le mura che circoscrivono lo spazio», dice Fotia, «ti fanno pensare ad una gabbia gabbia». Secondo la rappresentante di WeWorld siamo «ad un picco drammatico che non si vedeva da almeno 20 anni. La popolazione davvero fa fatica ad accedere ai servizi essenziali, anche quando non vengono distrutti o vandalizzati». L’intervento dell’organizzazione si concentra a promuovere una piena inclusione sia dei palestinesi residenti nell’Area C per mitigare l’impatto depressivo in termini di sviluppo umano, sociale ed economico, conseguenza della frammentazione imposta dall’occupazione. «Insieme ai nostri partner locali abbiamo individuato nella difficoltà di accesso alle risorse idriche una delle criticità più urgenti». Nel corso degli anni l’ong ha costruito e riabilitato più di 750 cisterne all’interno della comunità e delle scuole; realizzato e ripristinato oltre 150 pozzi e sorgenti; riabilitato decine di chilometri di strade rurali per garantire collegamenti tra le comunità e abbattere i costi di distribuzione dell’acqua per le aree non raggiunte dalle reti idriche; realizzato decine di chilometri di acquedotti per collegare le comunità non ancora servite. «Ma capita, come negli ultimi mesi, che le strutture vengano distrutte negli attacchi».
L’accesso alla cura è diventato complicato, come tutto il resto in Cisgiordania. «Fondazione Avsi», dice Caterina Uboldi, responsabile per l’ong dei progetti Palestina, «sostiene con il progetto “Fight like a Girl!” una clinica mobile che raggiunge le aree rurali e i campi profughi della Cisgiordania per effettuare screening mammografici gratuiti. Abbiamo dovuto riprogrammare i nostri spostamenti a causa delle restrizioni imposte, a causa della presenza dei posti di blocco, della improvvisa chiusura dei checkpoint. Ora riusciamo a fare qualche visita alle comunità emarginate nei governatorati di Ramallah, Betlemme, Gerusalemme e Hebron. A luglio la clinica è riuscita a raggiungere Tulkarem, ma solo per pochi giorni e con difficoltà. Andare ora sarebbe impossibile. Il deterioramento della situazione della sicurezza e le restrizioni alla circolazione stanno influenzando anche l’accesso all’istruzione per un numero considerevole di studenti che supportiamo attraverso il Distance Support Program, in particolare quelli che frequentano le scuole a Betlemme. Come tutti assistiamo a una preoccupante tendenza all’aumento degli attacchi sproporzionati contro i civili palestinesi in Cisgiordania. Non solo la frequenza di questi attacchi è aumentata, ma anche la loro brutalità».
Credit foto AP Photo/Nasser
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