Le newsletter di VITA

La fatica è di destra o di sinistra?

La pronuncia il ministro Valditara e si va all’attacco lancia in resta, la scrive Calabresi e partono i cuoricini: qualcosa non va. La parola è "fatica" ed è una delle parole-chiave della settimana e della ripresa. Perché farne un argomento divisivo? Non è sempre vera la necessità e l’attualità, per ogni generazione, di scoprire o reinventare la bellezza del senso del lavoro? È il tema della puntata n. 94 di "Dire, fare, baciare", la newsletter dedicata agli abbonati di VITA sulle sfide dell'educazione, della scuola, della famiglia

di Sara De Carli

I ragazzi di Ci sto affare fatica di Montebelluna

Che fatica! No, non è la ripresa. Quest’anno su quel fronte, tra l’altro, “tutti muti”, visto l’imperante monopolio su Linkedin dei post che colpevolizzano chi aveva troppo bisogno di staccare perché “non si sa organizzare bene tutto il resto dell’anno”. E no, non è nemmeno il back to school e tutto il coté delle chat delle mamme. È proprio che la parola “fatica” è una delle parole-chiave di questa settimana.

L’ha pronunciata il ministro Giuseppe Valditara al Meeting di Rimini, sollevando un polverone di critiche. «Torniamo a valorizzare la fatica, sennò è tutto dovuto, tutto comodo, ogni difficoltà viene messa da parte». Ne parlava agganciando la riflessione a quella sul senso del lavoro, dicendo che «il tema lavoro è minoritario nei nostri giovani, è dopo libertà, diritti, vivere bene. Ci vuole una rivoluzione che metta al centro il lavoro come valore. Riportiamo al centro la cultura del lavoro, proviamo a sperimentare percorsi imprenditoriali alle elementari. Il lavoro è stato un po’ messo da parte in questi ultimi anni. Dobbiamo individuare i talenti».

Che quello sui giovani lavativi e scansafatiche sia uno stereotipo che poco o nulla ha di vero, è fuori discussione: VITA ci ha dedicato un bellissimo numero, a maggio. Ma altrettanto vero è la necessità e l’attualità, per ogni generazione, di scoprire o reinventare la bellezza del senso del lavoro (che poi, diciamoci la verità, è un longlife learning). Banale, miope e forse paradossale farne cosa divisiva.


Eppure la stessa parola – fatica – ha suscitato commenti opposti sotto il post con cui Mario Calabresi ha annunciato il suo nuovo libro, Alzarsi all’alba, che è nato proprio dall’idea di mostrare perché “solo la fatica ci salverà”. «In questi anni ho visto la fatica passare di moda, i genitori augurarsi che i figli ne fossero liberati o vaccinati, come qualcosa da evitare, da rifuggire ogni volta che fosse possibile. Si è fatta strada l’idea che sia possibile raggiungere risultati, conquistare traguardi, compiere imprese senza fare fatica», ha scritto in un post Mario Calabresi. «Non è mai stato chiaro come possa essere possibile, ma l’illusione ha preso piede ed è stata abbondantemente coltivata. Intorno a questa utopia molta gente, che non può permettersi di affrancarsi continua a farla, la fatica. Ad alzarsi all’alba, a fare lavori ripetitivi e sfinenti, a non avere orari, a prendersi cura di famiglie, figli, malati, senza sosta. Silenziosamente, pensando di stare dalla parte sbagliata della storia. Non solo affaticati ma anche incompresi». Lo dice Valditara e si va all’attacco lancia in resta, lo scrive Calabresi e partono i cuoricini: qualcosa non va.

Fatica. Lo dice Valditara e si va all’attacco lancia in resta, lo scrive Calabresi e partono i cuoricini: qualcosa non va

Comunque la fatica mi pare uno dei temi della ripartenza. In qualche modo lo avevamo già anticipato su VITA con un articolo di Francesca Gennai e in “Dire, fare, baciare” a metà luglio (“Fare il proprio meglio è diventata un’eresia?”) – che cos’è giornalismo se non “parlare con tante persone diverse e quindi intuire più facilmente ricorrenze e punti da unire”? – quando a partire dalle parole di Jannik Sinner azzardavamo una riflessione sul fatto che il sacrificio ci piace solo quando è quello degli altri. Fra l’altro pure Calabresi cita una sportiva, l’atleta paralimpica Veronica Yoko Plebani, e il suo «la fatica la devi adorare».

Cito solo due esperienze, nel mondo del Terzo settore, in cui è lampante il valore dell’immettere nell’educazione il tema del lavoro e della fatica, senza bisogno di banali divisioni, etichette e pregiudizi, senza bisogno di tornare sempre al bellissimo ma stra-usato apologo degli scalpellini che lavorano alla cattedrale.

La prima è la celeberrima ma sempre affascinante Cometa, a Como, con la sua scuola che – ormai dal lontano 2008 – si caratterizza anche per il ruolo che il “fare per davvero” ha nella didattica, per lo strettissimo coinvolgimento del mondo del lavoro all’interno del percorso educativo e formativo dei ragazzi, per la didattica su commessa (leggi qui).

La seconda è la cooperativa sociale Adelante, che da Bassano Del Grappa in soli tre anni ha portato a livello nazionale, con oltre 200 Comuni coinvolti, il progetto “Ci sto affare fatica”, che la fatica la porta già nel nome: coinvolge ragazzi dai 14 ai 19 anni in tutta Italia, divisi in squadre, che durante l’estate – in cambio di un bonus – svolgono piccoli lavori di cura del verde, di pulizia di strade e sentieri, di tinteggiatura di panchine e staccionate, di realizzazione di murales decorativi. Ragazze e ragazzi che vogliono mettersi in gioco, conoscere nuove persone e sporcarsi le mani per rendere il proprio territorio un posto migliore (leggi qui). Date un occhio alle foto sulla pagina Facebook del progetto, vi riconcilierete con il mondo.

Questo articolo è tratto dalla newsletter “Dire, fare, baciare” del 2 settembre, l’appuntamento settimanale dedicato agli abbonati di VITA con le sfide dell’educazione, della scuola, della famiglia. Se sei già abbonato a VITA e vuoi riceverla ogni martedì, iscriviti qui. Se vuoi abbonarti a VITA, ricevere il magazine e tutti i contenuti dedicati agli abbonati come la newsletter “ProdurreBene” e l’infografica mensile, clicca qui (e grazie perché così sostieni il nostro lavoro).

Ho parlato anche di empatia artificiale e del fenomeno per cui i ragazzi iniziano a trovare in un chatbot il loro “migliore amico” e di insegnanti di sostegno, con il 48% dei supplenti annuali che sono stati confermati sulla stessa cattedra dell’anno scorso dietro richiesta delle famiglie. Un dato che sorprende, viste le lamentele e l’insoddisfazione che solitamente accompagnano il racconto dell’esperienza “scuola” per moltissimi alunni con disabilità. L’insegnante di sostegno dell’anno scorso, per quanto nella stragrande maggioranza dei casi non specializzato, evidentemente andava bene. Oppure le famiglie hanno semplicemente preferito il noto all’ignoto, perché si sa che c’è sempre il rischio di cadere dalla padella nella brace. O forse, come provocatoriamente ha scritto Giovanni Ferrero qui, le famiglie sono così stremate dalla lotta per i diritti dei loro figli che ormai anche solo “stare in classe” è una meta. Parliamone.

In foto, i ragazzi di Montebelluna (TV) che hanno partecipato a “Ci Sto? Affare Fatica! 2025” con la cooperartiva sociale Kirikù. Foto dalla pagina Facebook del progetto

Nessuno ti regala niente, noi sì

Hai letto questo articolo liberamente, senza essere bloccato dopo le prime righe. Ti è piaciuto? L’hai trovato interessante e utile? Gli articoli online di VITA sono in larga parte accessibili gratuitamente. Ci teniamo sia così per sempre, perché l’informazione è un diritto di tutti. E possiamo farlo grazie al supporto di chi si abbona.